Consigli Non Richiesti di Giancarlo Trombetti (#11 – Pat Travers Live Report)

Di Stefano Ricetti - 17 Novembre 2011 - 12:20
Consigli Non Richiesti di Giancarlo Trombetti (#11 – Pat Travers Live Report)

PAT TRAVERS BAND

Borderline Pisa

25 Ottobre 2011

Il rock and roll dal vivo è sopra ogni cosa un’emozione irresistibile. Tutto ti attrae: il gusto del viaggio con gli amici, il biglietto che ti pare bruciare in tasca, la fila paziente per accaparrarsi il posto migliore, l’entrata nella sala o nello stadio, il rumore, i profumi del cibo, delle ragazze, delle sigarette… sempre troppe… l’odore inconfondibile dell’amplificazione, dei cavi, un misto tra gomma fusa e olio di motore usato e poi la curiosità rodente di gustarsi l’emozione che sta per arrivare, osservare i dettagli, cercare di capire cosa accadrà da lì a breve… e poi la fauna che ti circonda, il tipo che incontri sempre ad ogni spettacolo e che ti domandi come faccia a esserci sempre, i trucchi che hai usato per nascondere il registratorino per il souvenir della serata e il cuore che batte ad ogni abbassarsi della musica che ti divide da due ore sognate per chissà quanto tempo. Poi le luci che affievoliscono, una musica che fa da introduzione o, ancor meglio, un presentatore che si affaccia sul palco e pronuncia quelle due prime, adorate parole: “Ladies and gentlemen…” ed anche se di gentiluomini non ne troveresti uno a cercarlo con il lanternino, sai che sono quelle le due paroline magiche che aspettavi… e inizi a trattenere il respiro…

Ecco, io pagherei per ricominciare a provare tutte queste emozioni, tutte insieme. Perché mi rendo conto che non le provo più, che tutto, troppo, adesso mi pare scontato, ripetitivo, talvolta risibile, ogni tanto persino forzato. Credo che a me si sia spezzato qualcosa dentro quando mi è venuto a mancare Frank. Non è stato lui il primo; in realtà lui è forse stata solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso della mia speranza, più che della pazienza. Troppi me ne sono scappati tra le dita, tutti personaggi che hanno riempito le serate e i sogni della mia infanzia, gente che non ha neppure mai saputo che esistevo ma la cui speranza di incontrare, di vedere, di ascoltare ha rinnovato i miei mesi, anni, di buio quando per vedere un concerto non bastava volerlo, ma dovevi andare a cercartelo in giro per l’Europa. Quando ti sembrava che quelli che ti piacevano di più erano sempre quelli più lontani di tutti: Copenhagen, Amsterdam, Parigi, Londra. Mai nessuno a Lugano, a Ginevra. Così tutto era ancora più difficile e costoso ma non ti fregava nulla, finché non iniziarono a sparire i tuoi miti giovanili. Alcuni semplicemente fecero di tutto per uscire dalle tue grazie: dischi facili o troppo difficili, vuoti e troppo pretenziosi, inutili o superflui. Ectoplasmi di ideali rock mai del tutto realizzati. Altri, ancor più semplicemente morirono portandosi via un pezzetto del tuo cuore, strappandoti pure una lacrima che fosti bravo a nascondere nel buio della tua camera di ragazzo.

 

Hallenstadion, Zurigo

Credo, ad esempio, che il mio odio profondo nei confronti degli svizzeri non sia nato quando un Hell’s Angel del servizio d’ordine mi mollò un ingiustificato calcio nel costato perché non entravo velocemente nell’Hallenstadion di Zurigo, qualche vita fa, ma quando, in un giugno del 1980, con uno spot bianco a illuminare la batteria di John Bonham gli svizzerotti non premettero più di tanto per ottenere quel bis che era come scritto sul Tom della sua batteria… una “Moby Dick” già pronta che venne rifiutata chissà perché. E se solo avessero saputo che sarebbe stata l’ultima… e poi chitarristi, tastieristi, cantanti. Compositori. Ecco, io direi che con Zappa la mia misura fu colma e da lì tutto scivolò in un inarrestabile calo di stimoli. Per anni mi rifiutai di andare a vedere concerti, persino quando facevano parte del mio lavoro, quando erano “il mio unico” lavoro.

‘Fanculo a rocchettari tutti uguali, a due, tre chitarre in fila a ciondolare con i capelli che ondeggiavano, ‘fanculo alle solite frasi, sempre le stesse, così poco credibili che quelle di Spinal Tap ti parevano molto più reali, ‘fanculo a spettacoli che non avevano più nulla di attraente e che ti sembravano fuori portata anche se erano a meno di cento chilometri da casa, ‘fanculo alla assoluta mancanza di novità. Credo che negli ultimi anni la mia apatia mi abbia fatto rinunciare se non a tutto, a molto. Sicuro di aver perso poco se non nulla. Lo scorso inverno, poi, una manciata di amici mi portò quasi di peso a vedere un nobile lombo per cui avevamo bruciato più di una cassa acustica in auto e sbavato su un live che ci pareva bellissimo… e poi Uli Roth era quello che aveva sostituito Michael Schenker negli Scorpions… e quelli erano tra i pochi tedeschi che potevi ascoltare con piacere. Così mi ritrovai in un clubbino a un passo da casa, una situazione rimediata, direi, con il palco nel posto sbagliato e alto quanto un pancale in legno.

Niente sentimento, nessuna scossa. La gente, poca, che – chissà perché – mi dava l’impressione di essere lì più per sé che per il chitarrista. Sorrisi, strette di mano, accenni gigioneschi. No, no, scuotevo la testa… mi sbaglio, ripetevo… è solo che non sono più abituato. Poi i quattro che arrivavano come clienti su quella pedanina, Roth, con un chitarrista –  italiano, mi fu detto – che se fosse dipeso da lui se ne sarebbe stato in assolo perenne, un bassista che se solo si fosse mosso avrebbe portato via la batteria… e forse sarebbe pure stato un bene dato che il lungo crinito batterista era un giovine massacratore di pelli cui dovevano aver detto che la batteria si suona picchiando forte, più forte che puoi. Di modo che ogni pezzo era uguale all’altro e i brani di Hendrix e Scorpions si perdevano nel nulla più assoluto. Una tristezza interiore, un magone, una sofferenza fisica per quel povero Cristo d’un chitarrista che me lo sarei portato fuori di lì, per una pizza, salvandolo da una fine che non meritava. Lui, l’eroe di “We’ll burn the sky”, “Fly to the Rainbow”, l’emulo di Jimi, il Condottiero dalle onorate collaborazioni ridotto ad apparizioni che non si sarebbero meritate neppure i peggiori nemici. Così, avuta la conferma della bontà del mio ritiro dal nulla-da-perdere mi ero sentito sereno per la mia reiterata scelta di lontananza dalla musica dal vivo.

 

Pat Travers

 

Quando la settimana scorsa un paio di amici mi hanno detto che in un altro piccolo club suonava Pat Travers non so perché ho detto subito di sì. Forse perché il Pat ventiseienne l’avevo visto l’ultima volta in una splendida occasione per tutti e due, quel festival fuori Londra, a Reading, nel 1980, dove aveva sparato più cartucce lui in quei 55 minuti di tanti altri; forse perché Patroclo Traversini era il soprannome che gli avevamo affibbiato noi disgraziati all’alba delle radio rock e alcuni dei suoi pezzi facevano da colonna sonora alle nostre malefatte di fine settanta. O semplicemente perché a volte si deve seguire l’istinto e non la logica e l’istinto diceva di sì. Sì anche se la mia Juve giocava con i Viola, anche se pioveva che Dio la mandava – e poi s’è visto che ha combinato dalle nostre parti! – sì anche se ci sarebbe stato da gironzolare per un bel po’ prima delle 11 di sera…

Piatto equo-solidale in un localetto dal buon clima, passeggiata per Pisa sbirciando nelle vetrine dei bar il risultato parziale e approdo finale al Borderline, piccolo, scuro, ma simpatico. Poca, pochissima gente e tutta non-giovane. Faccio pipì nei locali gabinetti a fianco del batterista Sandy Gennaro, ma non lo riconosco; sarà che la mia attenzione era tutta al mio willie. Ruggero e Mauro si piazzano a ridosso del palco, piccolo ma palco, mentre io mi metto comodo in una delle sedie a pochi metri. Pat ha due anni soltanto più di me ma mi pare sciupatello, seppur con tutti i suoi capelli ben saldi in testa e apparentemente non tinti. Rock and roll… tirato, sano, schietto. Tutti pezzi noti, risalenti in gran parte al periodo d’oro del canadese, quello, non a caso, intorno all’80. E lui che promette alla manciata di presenti di… ”kick your ass off”… non mi guardo attorno: non voglio sentirmi a disagio con me stesso. Penso solo che l’ultima volta che lo avevo avuto a tiro, lui aveva davanti alcune decine di migliaia di ragazzi urlanti. Stasera, anche togliendo tutti gli zeri non ci andiamo neppure vicino. La differenza? I telefonini! Che fotografano, registrano, fermano il tempo e lo tramandano ai posteri la sera stessa su YouTube. Penso che forse dovrei sentirmi imbarazzato, ma non lo sono.

 

Sarà perché la serata è stata piacevole come la compagnia, sarà perché la Juve, in fondo, ha vinto, sarà perché Pat è un Signor Professionista e se ci fossi stato solo io, per lui non sarebbe cambiato niente… i pezzi scivolano via, con solo un paio di nuove cose da un nuovo cd, in vendita su un banchetto, all’ingresso insieme alle classiche magliette.

Ma è al momento di andarsene che Travers mi stupisce: è obbligato a passare tra il suo pubblico e invece di farlo con due balzi, si ferma, sorride, stringe le mani di tutti quelli che incontra. Ringrazia.

Pat viene poi a parlarci, dopo la doccia, mentre noi ci eravamo soffermati a chiacchierare tra noi, ci racconta di un viaggio in auto da Reading verso Londra, trentun anni prima, con i soli occhiali da sole graduati avendo perso quelli normali, da miope; ci dice che Aldridge era una presuntuosa testa di cazzo e ci parla benissimo del suo Gennaro, ci promette di tornare ad aprile prossimo e chiede di non aspettare altri 31 anni prima di tornare a vederlo. Ringrazia di nuovo. Simpaticissimo.

Davanti a me ho l’immagine di decine e decine di pazzi che ho incontrato negli anni, resi poco controllabili da alcolici, neve, fumo, da personalità instabili, da ego smisurati da riempire una bisarca, da senso di schifo per il contatto fisico, da convinzione di aver lasciato qualcosa alla storia del rock ed invece proprio no. Per questo vedere un signore sui 58, magro e leggermente ingobbito, felice di aver appena finito di prendere a calci un piccolo numero di fans con la sua musica mi riappacifica con il rock and roll che resta sopra ogni cosa un’emozione irresistibile e dove non c’è niente di più emozionante della spontaneità e del piacere di suonarlo. E ascoltarlo. E mi spiace, adesso, pensare che se un tempo la mia musica abbia potuto evolversi e diffondersi, diventare un linguaggio universale, è stato proprio grazie a mille localetti come questo. Locali che sembrano essere diventati un miraggio, per noi che ascoltiamo e per quelli che vorrebbero suonarci. Più che un vero peccato, un crimine.

Giancarlo Trombetti