Bejelit: studio report di ”Emerge”

Di Alessandro Calvi - 27 Gennaio 2012 - 20:00
Bejelit: studio report di ”Emerge”

Attivi dal 2000, i Bejelit non hanno avuto vita facile. Dopo tanta gavetta firmarono un contratto per la pubblicazione del loro primo album, ma quello fu solo l’inizio di molti altri problemi. Per questo motivo la loro produzione, in questi anni, non è stata particolarmente prolifica. Dopo un campio di line-up piuttosto importante (alle chitarre non abbiamo più Daniele Genugu, con la band fin dal loro primo disco, ma il neo entrato Marco Pastorino, già in forza in gruppi come Secret Sphere e The Ritual), ecco pronto sulla rampa di lancio il nuovo album intitolato “Emerge”.

 

Siamo stati invitati negli Old Ones Studios, di proprietà dei fratelli Capone, per un ascolto in anteprima, track by track, del nuovo disco. L’occasione si è prestata anche per avere qualche informazione di prima mano sullo stato di salute della band e su quali siano state le influenze che hanno portato alla nascita di questo nuovo album.
Dopo l’uscita del precedente “You Die and I”, il gruppo ha avuto occasione di farsi conoscere anche all’estero partecipando a diversi festival europei. Un’esperienza che dovrebbe essere ripetuta a breve, dato che seguiranno i Rhapsody of Fire (per chiarezza di quelli che non hanno seguito da vicino la diatriba legata a questo moniker, è il gruppo di Staropoli e Lione, non quello di Turilli) in tour a partire da Aprile.
In tutto questo tempo, ovviamente, i Bejelit non sono rimasti con le mani in mano, ma hanno continuato a scrivere e a comporre giungendo a realizzare un CD che conta 13 tracce per oltre un’ora di musica. Contrariamente al passato, questa volta la band ha scelto di affrontare le registrazioni con un piglio più professionale, chiudendosi in studio per due mesi fino al completamento dell’album, invece di spezzettare le sessioni di recording per un lasso di tempo più dilazionato. Una scelta quasi obbligatoria dato che si è scelto di rivolgersi ad alcuni grossi professionisti del settore come Nino Laurenne dei Sonic Pump Studio di Helsinki (Children of Bodom, Amorphis, Sonata Arctica, etc.) per le registrazioni e Svante Forsback dei Chartmakers (Sonata Arctica, Amorphis, Rammstein, etc.) per il master.
Parlando di professionisti a cui i Bejelit si sono rivolti, non si può non citare anche la collaborazione con Nick Xas, paroliere autore di praticamente tutti i testi, seppur sotto “influenza” del gruppo, a cui i musicisti si son rivolti per rendere al meglio le idee e le storie dietro alle canzoni.
Dopo il frangente estremamente cupo e dark di “You Die and I”, che per stile e atmosfere si distanziava un po’ dai Bejelit che tutti conoscevano, “Emerge”, nelle intenzioni del gruppo, segna (come dice anche il titolo) una sorta di rivalsa. Le canzoni dovrebbero mostrare un piglio sì aggressivo, ma in senso positivo, una sorta di rabbia costruttiva, di nuova e rinnovata voglia di mettersi in gioco e di dare il tutto per tutto per riuscire. Non a caso l’acqua, elemento che spesso nella narrativa e nella mitologia è collegata a un concetto di rinascita, è molto presente in questo disco a partire dalla copertina, fino a diverse canzoni direttamente legate alla città di Arona dove il gruppo è nato, che si affaccia sul Lago Maggiore (anche il logo ha subito un piccolo restyling presentando, ora, il simbolo della loro città natale in forma stilizzata alle spalle del moniker).
 
Dopo i dovuti preamboli di presentazione, cominciamo dunque a parlare del disco.
Tocca a “The Darkest Hour” aprire le danze e lo fa ricollegandosi, idealmente, al precedente “You Die and I”. Ne riprende lo stile dark, aggressivo e cupo, anche se si sente fin da subito la differente produzione, anche a livello di suoni degli strumenti, in particolare per quanto riguarda le chitarre soliste. Naturalmente parte di questi cambiamenti sono da imputare anche al cambio di line-up e al gusto per le melodie molto più power-oriented del nuovo entrato Pastorino. Un altro elemento da sottolineare son le tastiere, qui molto più presenti che in passato, usate come legante sinfonico di tutto il pezzo. Il brano si alterna, comunque, tra sfuriate al limite del thrash e passaggi che sanno quasi di ballad. Dal punto di vista concettuale, infine, rappresenta perfettamente l’idea alla base del CD: prima la descrizione della depressione e poi il cercare, lottando, di uscirne.
 
Il secondo brano si intitola “C4” e, come ci si potrebbe aspettare da una canzone che prende il nome da un noto tipo di esplosivo, è subito una mazzata nei denti. Di nuovo i riferimenti thrash sono molto più che solo un’eco, il brano è aggressivo e violento (pur mantenendosi sempre molto orecchiabile) e, qui e là, presenta anche qualche spruzzata di elettronica che non guasta. In questo caso a dar vita ai testi è una piccola storia fantascientifica autoconclusiva. Dopo una lunga guerra dovuta a una invasione aliena, un uomo è chiuso in un bunker. Cerca di comunicare, ma nessuno gli risponde, potrebbe anche essere l’ultimo uomo sulla faccia della terra. Potrebbe rimanere lì, lasciarsi morire di inedia, poco a poco, mentre le scorte di cibo e acqua si esauriscono poco alla volta. Invece sceglie di armarsi e uscire, se proprio deve morire, lo farà portandosi dietro quanti più alieni possibile.
 
Marco Pastorino firma completamente il terzo pezzo in scaletta intitolato “Don’t Know What You Need” e, fin dalle prime note, si sente subito la differenza. Lo stile dei Bejelit, infatti, qui sembra esser lasciato un po’ in secondo piano in favore di un power-speed dalle tinte molto più classiche che, complici anche i suoni di alcuni strumenti e dei cori, strizza molto l’occhio al power nord-europeo di Sonata Arctica e affini. Certamente è qualcosa di diverso da quanto ci si aspetterebbe dai Bejelit e, quindi, sarebbe curioso sapere cosa ne penseranno i fan. Dal punto di vista dei testi ad animare la canzone è una storia d’amore che potremmo definire “al contrario”. L’happy ending, infatti, non è dato da due amanti che si mettono insieme, ma che trovano finalmente il coraggio di lasciarsi per smettere di farsi del male l’un l’altro.
 
La quarta traccia è la titletrack “Emerge”. E il testo non può che essere una sorta di summa e riassunto di quanto detto prima sulla rabbia usata come energia positiva per reagire, per emergere, per rinascere più forti e combattivi di prima. Allo stesso modo, quindi, musicalmente non può che essere la canzone più classicamente Bejelit (seppur con gli assoli e le scale di Pastorino che danno al tutto una spruzzata di novità) di tutto il disco. I fan della prima del gruppo aronese non potranno che leccarsi i baffi nel sentire questo pezzo che sembra farci fare un salto indietro nel tempo di quasi 10 anni. Da segnalare anche il curioso stacco centrale di chitarra acustica in perfetto stile popolare spagnolo.
 
La quinta “We Got the Tragedy” si apre con un pezzo di chitarra classica molto orecchiabile, quasi degno di una colonna sonora. Si tratta nuovamente di una song pienamente nello stile della band: aggressiva, ma con un orecchio alla melodia, che gioca su alcuni momenti più lenti alternati ad altri più violenti. Qui e là, inoltre, ricompare qualche traccia d’elettronica, usata principalmente come tappeto per gli altri strumenti. Questa volta il testo parla di tutti quei fatti, quelle parole, quei piccoli tradimenti, che possono diventare la spinta a fare meglio, a reagire, a continuare con più grinta di prima anche, e soprattutto, alla faccia di chi ti voleva abbattere.
 
Ci avviciniamo alla metà dell’album con la sesta “To Forget and to Forgive”, un pezzo più lento e melodico di quelli sentiti fino a questo momento, anche se non è certamente una ballad pur presentandone diversi elementi. Primo fra tutti il pianoforte (che ai fan della prima ora, qui e là, potrebbe anche ricordare “I Want Die Every Day”), così come la chitarra classica che fa da sottofondo un po’ a tutto il brano. In questo caso il testo è stato scritto da Xas senza che fossero i musicisti a dirgli cosa volevano dire o comunicare, ma come segno di riconoscenza del paroliere ai Bejelit, infatti la canzone è quasi una biografia del gruppo. Come ospite compare, inoltre, Nicola Dagradi, chitarrista che negli ultimi due anni ha spesso suonato con il gruppo in diversi concerti senza, però, mai entrare definitivamente in formazione e che i Bejelit han voluto ringraziare per l’aiuto invitandolo a suonare su diversi pezzi.
 
Con la settima “Dancerous” assistiamo a un primo cambiamento piuttosto netto nello stile musicale dell’album. L’inizio di violino, suonato dalla ospite Laura Brancorsini dei Furor Gallico, fa capire fin da subito che anche il folk sarà una componente di questa canzone. L’incedere ritmato, i passaggi epici sinfonici, il pianoforte e l’assolo di fisarmonica (uno strumento ingiustamente sottovalutato e, purtroppo, col passare del tempo sempre più snobbato dai musicisti), rendono particolare questa traccia e perfettamente adatta, musicalmente, alla storia che racconta. Se la fine del mondo fosse prossima e, ormai, nessuno potesse più farci nulla, quale modo migliore per andarsene che una ultima grande festa?
 
L’ottava “Triskelion” prosegue nel solco della precedente, ma lo fa in maniera più pestata e aggressiva. Questa volta il tema è quello della partenza, del doversene andare, nonostante la bellezza della propria terra natia, per tanti motivi che possono essere il lavoro o la guerra, ma anche di come, nel posto in cui si è nati, si lasci sempre un pezzo di cuore. Per questo i musicisti hanno scelto di inserire anche il ritmo della tarantella, quasi a creare un parallelismo tra le radici siciliane di alcuni di loro e il testo qui presentato.
 
“Fairy Gate” segna l’inizio di un trittico di canzoni più legate ad Arona e, in generale, al Lago Maggiore. Questa nona traccia parla di una delle cosiddette “Porte delle Fate”, che la leggenda vuole trovarsi in diversi luoghi del mondo, dallo Yorkshire, a Lisbona e, appunto, Arona. In particolare in quest’ultima, la porta si aprirebbe una sola volta ogni 100 anni, chi si trovasse nei pressi in quel momento potrebbe trovare al suo interno, in una grotta, una fanciulla addormentata, una campana per svegliarla e un forziere pieno d’oro. E’ quanto accade al protagonista della canzone che, purtroppo per lui, sceglie l’oro, ma vive tutta la sua ricca e solitaria esistenza col rimpianto di non aver risvegliato la ragazza. Il brano mescola lo stile dei Bejelit a un power dal sapore più classico e sembra esser fin troppo corta, lasciando, quasi, l’ascoltatore un po’ deluso.
 
La decima “The Defending Dreams Battle (Aruna Gateway)”, si piazza dopo “Fairy Gate”, ma ne è, in realtà, il prequel dato che narra proprio la battaglia che portò al perchè la Porta delle Fate si apre solo ogni 100 anni e perchè vi si trovino all’interno l’oro, la ragazza e la campana. Per far da sottofondo a una battaglia non c’è modo migliore che rispolverare lo stile violento e aggressivo dei primi Bejelit, ma anche qui c’è qualche piccola novità. Le tastiere suonano molto squillanti e brillanti, ricordando un po’ quelle dei Sonata Arctica degli inizi (probabilmente frutto anche di alcune scelte in fase di registrazione e produzione), mentre le chitarre svariano da quegli echi thrash che avevamo già riconosciuto all’inizio, fino al rock che è più congeniale a Nicola Dagradi.
 
C’è spazio anche per una suite, con l’undicesima “Deep Waters”, che sfora tranquillamente i 12 minuti. Si tratta, senza mezzi termini, del pezzo più complesso e vario del disco. Composta di molti passaggi diversi, alcuni anche molto corti, si destreggia tra momenti molto epici che per ritmo e cori possono ricordare i Running Wild, assoli di chitarra (dal gusto classicamente power), di violino e fisarmonica o ancora di chitarra classica, brani campionati di onde e vento sul lago, frangenti di pura aggressività e di pianoforte. Una canzone con tante anime anche perchè vorrebbe quasi voler descrivere, in musica, il Lago Maggiore, con tutte le sue bellezze e diversità, a chi non l’avesse mai visto.
 
“Defcon 13” è la traccia più criptica del CD. Piazzata come dodicesima è, in realtà, solo un interludio primo dell’ultimo brano e spiazza completamente l’ascoltatore perchè sembra completamente avulsa da ciò che c’era prima e ciò che viene dopo, nonchè da tutto il resto del disco. Il titolo gioca con il termine Defcon, cioè Defense Condition e il numero 13, in questo caso inteso come anni dell’adolescenza, periodo in cui tutti si è come in una sorta di stato d’allerta nei confronti del resto del mondo. Il pezzo, inoltre, è estremamente cupo e claustrofobico, composto esclusivamente di elettronica e pezzi campionati, oltre che da urla filtrate. Decisamente straniante, probabilmente sarebbe perfetto come colonna sonora di qualche videogioco horror perchè riesce perfettamente nel suo intento di creare una atmosfera disturbante. E’, quindi, quasi con un certo sollievo che ci coglie la chiusura netta e improvvisa che si fa passare all’ultimo pezzo.
 
La tredicesima “Boogey Man” è l’ultima canzone del lotto e apre in maniera quasi agli antipodi rispetto alla precedente, con chitarre acustiche e voce pulita. Si tratta di un pezzo molto melodico e tranquillo in cui fanno spesso incursione anche il violino, il pianoforte e le tastiere orchestrali. Qui e là, però, compare anche qualche elemento che tiene l’ascoltatore sul chi vive, come se da un momento all’altro potesse cambiare tutto. Son poche cose, una voce sussurrata qui, un paio di note leggermente discordanti là. Si tratta di una attesa destinata ad essere delusa e giustificata dal tema della canzone. Le paure dell’infanzia, infatti, son qualcosa da cui difficilmente si riesce a staccarsi completamente e, anche da adulti, alcune fobie possono fare capolino quando meno ce lo si aspetta, proprio come una nota dissonante, che sembra voler incrinare la melodia.
 
Si conclude quindi così il quarto disco in studio dei Bejelit. Naturalmente si è trattato di un ascolto per forza di cose superficiale, ma che al contempo ha permesso di sviscerare i dietro le quinte di molti brani grazie alla possibilità di parlarne direttamente con i musicisti. Una possibilità per cui ringraziamo ancora i ragazzi, in attesa di riascoltare l’album e poterne dare un giudizio più completo e approfondito in sede di recensione.
 
Alex “Engash-Krul” Calvi