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Consigli Non Richiesti di Giancarlo Trombetti (# 7)

Di Stefano Ricetti - 14 Luglio 2010 - 12:50
Consigli Non Richiesti di Giancarlo Trombetti (# 7)

Ottavo appuntamento con la rubrica “Consigli Non Richiesti” da parte di Giancarlo Trombetti.

Inghilterra, Anno 1980: Londra, Reading Festival, Marquee Club, Iron Maiden, Angelwitch, Samson, UFO, Slade, Sledgehammer, Def Leppard, Whitesnake, tutti insieme per un amarcord assolutamente da non perdere, innervato da alcune foto d’epoca scannerizzate direttamente da GC per l’occasione, trent’anni dopo…

Buona Lettura

Steven Rich

Quella estate faceva caldo. Almeno di giorno. Forse non si parlava di record, ma si sudava. Luca se ne stava già a Londra da un pezzo, d’altra parte era la sua fortuna avere un albergo di proprietà per imparare l’inglese ed anche il suo futuro lavoro. Beppe l’avevo visto per la prima volta da qualche settimana. Fu il nostro primo incontro, in un campeggio di Marina dove ci presentarono e dove gli promisi che avrei fatto un po’ di interviste per il giornale. Luca Silvestri e Beppe Riva furono due persone importanti per opposti motivi e per i diversi risvolti psicologici che essi rappresentarono, per me, allora; una sorta di stimolo a dedicarmi a quella che era e resta, sostanzialmente, una passione, ma che capii che avrebbe potuto essere anche un lavoro. Sì, ero abbastanza ingenuo ai tempi. E pieno di speranze! C’erano stati altri, in precedenza, che mi avevano dato lavoro, quello che cercavo, ma quei due ragazzi furono l’elemento mancante all’ingranaggio. Se non li avessi mai incontrati, se non fossero entrati nella mia vita in quel momento di trent’anni fa, oggi probabilmente sarei un sereno avvocato di provincia, con i suoi bravi clienti dediti al divorzio o al fallimento di aziende a agli incidenti stradali, invece del disgraziato privo di arte e parte che sono. Sono i casi della vita: chi ti offre un periodo di permanenza all’estero – che mi pagai, comunque! – e chi ti offre una collaborazione a un mensiletto che servirà solo e principalmente a piccole soddisfazioni personali, alla costruzione di una fama del tutto immeritata, date le circostanze, una sorta di palestra per una vita di speranze ma che servì, sostanzialmente, a riflettere sulla opportunità di provarci sul serio, come accadde.

No, in quei successivi dieci anni, nessuno di Rockerilla non mi disse mai neppure grazie. E non si tratta di una battuta. Non un grazie per le foto, per le interviste e per gli scritti. Non un grazie per l’impegno e per le seccature. Non un grazie per le spese. Non un grazie quando giunse il momento di lasciar perdere. Non si trattava di inviare una e-mail, giovanotti… Mi rendo conto che possa sembrare strano per chi è nato nell’era del web, ma c’è stato un tempo in cui i giornali venivano messi insieme con fax (la tecnologia avanzata!) e lettere espresso. Tutto era nella mani delle Poste Italiane! E del buon cuore (leggesi puntualità) dei collaboratori. Niente internet, niente e-mail, niente telefonini, nessun computer o Mac per impaginare. Perché quindi lamentarsi dello stato dell’editoria? Cos’erano, in fondo quegli “editori”? Poco più che raffazzonati raccoglitori di rammendati pareri altrui che risultavano spesso privi di fonti certe. Un tempo era così. Ma è così pure oggi, mi dicono, e forse peggio con il web… vabbè, andiamo oltre…

Faceva caldo, dicevamo, ed io, lungo le rive del Tamigi ci ero già stato una volta. Ma non avevo capito fino in fondo. Forse perché si trattava di un giorno solo, forse perché la prima volta siamo tutti più distratti da quel che ci accade intorno più che da quello che stiamo vivendo, forse perché la sorte voleva che la seconda fosse la mia prima, vera volta.

Reading è una cittadina universitaria, a un’oretta di treno dalla Capitale, che ogni anno, da decenni, dal 1972 per l’esattezza, dalla sua undicesima edizione, ospita un festival estivo, nel corso del “bank holiday weekend” su organizzazione del Marquee Club, l’istituzione per eccellenza della musica inglese. Il Marquee non è un semplice locale : è un tempio, “Il Tempio” della musica anglosassone. Dalle sue salette tinte di nero sono passate tutte le mode ed i modi del jazz, poi del blues e del rock, delle punk, di ogni tendenza, ma sempre rigorosamente prima che esso divenisse un culto comune. Perché scoprire i Bluesbreakers di John Mayall o i Cream, Hendrix come i Rolling Stones così come i Led Zeppelin, i Jethro Tull come gli Iron Maiden o i Taste o centinaia di altri gruppi stellari dopo che essi siano divenuti quello che sono è fin troppo facile. Ben più difficile farlo quando nessuno abbia mai sentito nominare quei nomi buffi.

Nella foto: il Marquee Club di Londra

Il Blues and Jazz Festival organizzato da Chris Barber, insieme a un paio di altri sodali, ha rappresentato il meglio del meglio di ciò che la scena inglese, ed internazionale, poteva offrire nell’anno in corso, sottoposta al severo controllo di alcuni ospiti speciali che rendevano quell’appuntamento imperdibile. Nessuna preclusione di genere e suoni nelle loro selezioni, chiunque avesse talento veniva e viene accettato e promosso. E se avere tra le mani il minuscolo depliant giallo che era a disposizione in un cesto dietro la minuscola cassa con l’elenco dei nomi che erano passati dal piccolo ingresso del numero 90 di Wardour Street era un po’ come sentire il peso di intere ere musicali che ti aleggiavano intorno, entrare nel club era esattamente come decidere di….respirare il rock and roll.

Nella foto: il foglio pubblicitario del Marquee del 1980

Quello passato e quello futuro. Tutto era così banalmente semplice, così stupidamente facile che ti sembrava impossibile che lì fossero nate quelle leggende che ci porteremo nelle orecchie fino all’ultimo battito del nostro cuore. The Marquee Club non era soltanto il locale più importante dell’intera scena musicale europea, ma la testimonianza di come un solo luogo abbia potuto aiutare artisti immensi che, probabilmente, avrebbero avuto la vita molto più dura nell’emergere. E stiamo parlando di David Bowie, The Who, Yardbirds, Animals, Pink Floyd, Nice, Yes, King Crimson…oltre ai già citati. E poi, senza il Marquee, niente Punk, niente new wave, niente quello che loro chiamano, giustamente, heavy rock. E quella del 1980, giusto trent’anni fa a giorni, era proprio l’estate dell’heavy rock. Ed io me ne stavo lì, in un bed and breakfast di Shepherd’s Bush, non lontano da Hammersmith, a un passo dall’ Odeon ad aspettare il fine settimana di agosto in cui le banche chiudevano, ciondolando tra il Marquee, appunto, il Venue, il Music Machine, una ex-discoteca riscoperta al culto rock e l’Odeon. E i miei mercatini dell’usato. E dato che l’organizzazione era esattamente la stessa, nelle giornate antecedenti al festival, tutte le nuove promesse, tutti i gruppi su cui puntare, tutti i ragazzi di cui i giornalisti locali avrebbero parlato da settembre in poi, erano una sera sì ed una no là dentro, a bere birra ad ascoltarsi l’uno con l’altro, senza spirito di competizione, ma con una valigia piena di speranze e di voglia di farcela. Così, quando andavi da uno di loro e gli chiedevi di fare due chiacchiere, erano loro a offrirti la birra (…no, grazie, coca, per me, sono astemio…), e se non ti alzavi con una scusa stavano lì a raccontarti la storia della loro vita, lavori giovanili inclusi. Esattamente come in Italia, dove, se solo appari in un programmino tv raccomandato dal politico di turno, il giorno dopo chiedi alla Telecom di toglierti dall’elenco per paura che ti assalgano i fans sotto casa… Il senso della popolarità e della professione, dall’altra parte della Manica è sempre stato diversamente interpretato…

 

Nella foto: i badge del Marquee

Luca non so come avesse fatto, ma conosceva così bene il cassiere che non aveva neppure più bisogno di chiedere un photopass. Insieme a lui c’era anche il buon Piergiorgio Brunelli, che prima di diventare il fotografo delle star vagava con me per mercatini in cerca di vinile mancante. Un compagno perfetto, sempre pronto a traversare Londra per scovare un nuovo “buco”. Io, con il mio inglese ancora da perfezionare e concentratissimo nelle risposte per tentare di afferrare davvero ogni sfumatura, mi dedicavo alla raccolta di quelle chiacchierate che qualcuno osava chiamare “interviste”; decine di nastri vagavano nelle nostre valigie. Ricordo che ci fu un ragazzo, una sera, un tipo con i capelli biondi fino al sedere, che mi dette una mezza dozzina di risposte alle mie domande cui io non capii una mazza tanto “cockney” e stretto era il suo accento. Fui costretto a prendere per buono tutto e ingoiare…Era il chitarrista degli Angelwitch, Kevin Heybourne. Da qualche parte a casa ho ancora la lista dei pezzi che presi dal palco per ricordarmi i nomi dei brani che avevo registrato, con dietro il suo numero telefono. Casomai fosse stato utile…

 

Nella foto: la song list di Angelwitch al Marquee (agosto 1980)

 

Molti altri che non vengono neppure più ricordati nel sito ufficiale del Marquee club – perché pare che, incredibilmente, ne abbiano perso memoria storica – riempivano quelle serate di estate, ma in particolare un gruppo occupò più di una settimana di seguito a suonare là dentro; si chiamavano Iron Maiden, ed anche se sinceramente il cantante, qualche sera, non è che mi convincesse più tanto, avevano un impatto incredibile, con le due chitarre. Dal vivo ricordavano i Thin Lizzy di Phil Lynott ma molto più tosti e meno melodici e non era un caso: un po’ tutti loro dichiaravano di amarli. Ogni sera, ad ascoltarli, in mezzo a celebrità rock curiose di osservare i propri “nipotini” e serenamente appoggiati al bancone del bar e a stuoli di rispettosissimi appassionati, c’era un altro gruppo che sperava di avere qualche altro invito a suonare al club, prima del Festival; si chiamavano Samson e il cantante, un tracagnotto che si era striato i capelli di biondo, si era dato un soprannome un po’ scontato, un po’ punk. Una sera, una settimana prima dell’evento, Di Anno, il cantante dei Maiden, aveva la voce un po’ giù e dato che mancavano solo pochi giorni al “grande concerto”, decise di non rischiare. I Samson li sostituirono dopo che, tanto per scherzare, Bruce il tracagnotto aveva cantato sul palco una canzone degli Iron Maiden, durante il soundcheck, quella omonima. A me, che non li avevo mai sentiti, i Samson piacquero e le chiacchiere con due di loro, cantante e chitarrista, in un angusto spogliatoio che puzzava di sudore, furono simpatiche. Ebbi la seria impressione che mi rispondessero domandandosi se in Italia avessimo ancora scoperto l’Hi-Fi tanto parevano sorpresi che ci fosse qualcuno interessato alla musica rock inglese emergente. Loro, dissero in tutta sincerità, non erano certi di essere noti a Eastbourne, un paesino di mare sulla costa… E così, passò luglio e mezzo agosto: con tascate di bigliettini da un pound e ottanta e tanti concerti in mezzo a bestiacce pelose, rivestite metà in jeans e metà in cuoio nero, tappezzati di sticker cuciti con amore dalle mamme nei punti più logori dei giubbetti, portati con orgoglio anche nelle serate più afose. Ogni tanto facevamo un salto alle case discografiche – indipendenti incluse – giusto per il gusto di vedere le facce delle ragazze della promozione che si stupivano del nostro interesse…”Ma davvero volete l’intervista con Steve Harris e Paul Di Anno? Siete sicuri che non vi interessi di più Ian Gillan o Ozzy Osbourne?… ditemi la verità: ma chi li conosce in Italia se non hanno ancora mai traversato la Manica?”.

Difficile spiegare loro che la Culla della Civiltà eravamo noi e non loro e che dalla fondazione di Roma li avevamo pure conquistati un paio di volte; per loro Italia era “Nel blu dipinto di blu”, anzi, “Volare”… e gli spaghetti. Ecco, parlare di spaghetti e promettere loro un trucco davvero speciale per farli venire perfetti era il viatico migliore per ottenere permessi per foto e backstage pass. Potenza del rock all’italiana! Su una cosa, però, non era lecito scherzare: per gli inglesi, la musica, era ed è un business serio e chi se ne occupava era persona rispettabile, così come gli orari degli appuntamenti e le promesse. Per loro scrivere di musica era ed è esattamente come per noi parlare di politica-partitica o di calcio: una professione seria. Quindi, che sembrassimo quello che eravamo, due scalzacani in maglietta con un panino di Wimpy o Burger King (Mac Donald’s era da venire!) sullo stomaco e un sacchetto pieno di vinile di seconda mano al seguito, noi eravamo “professionisti seri”, e di conseguenza da rispettare. E poco importava loro se la seriosa “lettera di incarico” veniva stilata con una macchina da scrivere di fortuna su carta intestata coraggiosamente creata fotocopiando le testate dei giornali su un foglio bianco mettendo in essere quella creatività tutta italiana… No, i periodici musicali dell’epoca non servivano neppure a chiedere un accredito; neppure quando il risultato finiva in mano a loro e gratuitamente. Fu così che il mio viaggio in treno verso Reading ed il suo festival rock avvenne con una lettera di accompagnamento “courtesy of EMI” che garantiva backstage pass e chili di badge utili per entrare in tutte le tende e mangiare, finalmente!, fino a sentirsi male. Come solo un vero italiano sa fare davanti a un buffet gratuito.

La stanzina dove dormire – eravamo in quattro, una giovincella post-hippy si era aggiunta al poco raccomandabile terzetto – era a dieci minuti di passeggiata dalla recinzione del Festival e il prezzo, tutto sommato, accessibile. La fauna era incredibile: se i festival precedenti avevano sempre avuto un minimo di equilibrio nelle proposte, quel 22, 23 e 24 agosto erano quasi interamente dedicati all’heavy rock alla nascente scena inglese che avrebbe, di lì a poco, invaso il resto dell’Europa e poi del mondo. A posteriori, se sia stato un vantaggio o meno per l’evoluzione del genere, quella invasione di gruppi tutto volume, tanta tecnica e limitate facoltà compositive tranne rari casi, se il troppo tutto insieme non abbia portato a una sovraesposizione eccessiva, è difficile da valutare, ma in quel periodo l’heavy rock , quello che al di qua della Manica preferivamo chiamare genericamente Heavy Metal, aveva ancora un suo punto di bilanciamento e la grandezza di quei giorni fu proprio la capacità del rock di sapere ancora esporre mercanzie blues e acustiche che non servivano a raffreddare gli animi, ma ad impreziosire il diamante. Ogni era musicale ha sempre avuto un seguito ogni volta più duro, più tosto; è la storia del rock and roll. Quello cui ha dato vita quell’estate fu esaltante. Le sue propaggini attuali un po’ meno. Mentre camminavo lungo la recinzione metallica mi guardavo intorno; l’impressione era di trovarsi in una Woodstock di soli rockers. Ragazzi sostanzialmente di età non superiore ai 25 anni, jeans e maglietta, il giubbetto pieno di patacche sulle spalle o sotto il braccio, pronto per essere indossato, obbligatoriamente, nel corso delle esibizioni. Solo i bikers sembravano decisamente di età più attempata. Fiumi di birra, tonnellate di lattine, centinaia di modi creativi di portarsele dietro. Il più in voga pareva essere una sorta di cintura formata dalla plastica che le teneva ferme l’una con l’altra, legata in vita. Una sorta di cartucciera inoffensiva; almeno finché i vuoti non riempivano il cielo, oscurandolo, in direzione dei palchi. File interminabili di ragazzi alle entrate, tutti molto ordinati, calmi, poco eccitati, quasi abituati al rito che iniziava alle 13,30.

 

 

Nella foto: il Reading Festival visto dall’alto

 

Noi, professionisti del rock, saltavamo le migliaia di rocchettari, entrando da una cancellata speciale, che dava direttamente sul retro, dove un ettaro di tende messe lì dalle varie case discografiche faceva da rifugio nel retro palco; una serie di cartelli scritti a mano con femminile creatività indicava con ordine la sequenza dei party del pomeriggio e della sera. La pianificazione era l’occupazione principale della tarda mattinata : “alle cinque mangiamo prima dei Krokus, ci perdiamo i Q-Tips che sa la Madonna chi siano e approfittiamo dell’assenza dei G-Force di Gary Moore per “terminare” quei salatini al tendone della Emi.”. Reading era anche questo. E poi, vuoi mettere il gusto di andare e venire dal fronte del palco ed essere in un attimo davanti a tavole imbandite con centinaia di fighetti più interessati alle groupies che ai salatini? Il nostro ingresso verso le due di pomeriggio del venerdì fece accennare un sorriso al servizio d’ordine: sono giovani, avranno pensato, magari stranieri, nessun giornalista “importante” si presenterebbe mai prima delle sei di pomeriggio, questi qua alla mezzanotte non ci arrivano… però erano cortesi, ci davano i tre stickers colorati diversamente delle tre serate e attendevano che ce li appiccicassimo addosso, non importa dove. Senza di quelli non si entrava!

Poi ci regalavano i badge e si garantivano che leggessimo gli orari corretti dei rinfreschi. Tonti. Non sapevano che eravamo professionisti del buffet! Poi ti ringraziavano (pure) e indicavano le persone di riferimento in caso di necessità di realizzazione di interviste. Gli headliners e gli ospiti speciali non li vedevi prima delle nove di sera; tutti gli altri, gli emozionati speranzosi nel Grande Lancio se ne stavano lì, probabilmente dalla sera prima. Mani due spugne, sudori freddi, uno specchio a portata di mano per controllare l’aspetto; non si sa mai. Qualcuno provava anche a suonare, senza amplificazione, come se si trattasse di una chitarrina acustica, in un angolino, a ridosso di un caravan o di una roulotte. Fu lì che ritrovammo di giorno in giorno quasi tutti i ragazzi del Marquee, emozionati ed eccitati, ma sempre gentili e disponibili. “…ma lo sapete che la nostra etichetta ha firmato un contratto con i Kiss per farci fare il gruppo di supporto nel tour europeo? Ce lo hanno confermato solo ora, non volevano turbarci prima del festival…Se non sbagliamo stasera questa è la volta buona!”. Erano gli Iron Maiden – su cui la EMI puntava moltissimo – che da lì a quindici giorni avrebbero traversato la Manica per la prima volta. E fu così che nel corso di una telefonata agli amici in Italia caldeggiammo la trasferta a Milano per i Kiss, i primi di settembre… “Non andateci per loro, andateci per il gruppo spalla, sono una bomba!”. Noi non saremmo tornati in tempo: a metà settembre al Rainbow Theatre c’erano due serate speciali, i grandissimi Allman Brothers con un gruppo di supporto che avevamo di torno da due mesi e che ci piacevano da morire, i Nine Below Zero di Dennis Greaves un pennellone che suonava la chitarra nei classici r & b con la violenza di un metallaro scafato. Imperdibile, a mio parere, il loro esordio, un disco da ballare, saltando, in una serata speciale e non a caso chiamato “Live at the Marquee”. Furono proprio loro, con Gillan come ospite speciale le cose più belle di quel primo giorno, insieme a due scoperte, i Praying Mantis una sorta di metal melodico, ed i misteriosi, affascinanti Fischer Z, idoli del leftist party inglese, una via di mezzo tra i primi Police e i Punk più lucidi, prima dell’apoteosi notturna di Rory Gallagher. Ricordo che un altro rito era l’acquisto del Reading Evening Post, il quotidiano locale, la mattina successiva.

L’articolo che parlava dello spettacolo del giorno precedente era in prima pagina : il festival era un avvenimento benedetto dalla cittadina, seppur sconvolta da una media di 30,40 mila ragazzi al giorno. La serata di Rory veniva condita con una presenza, per le dieci di sera, ora di inizio dell’ultimo concerto, di 65mila ragazzi. Forse un po’ troppi. Ma la frase iniziale dell’articolo me la ricordo ancora oggi : “…Gallagher ha suonato a più concerti all’aperto che voi fatto pranzi caldi e Reading è quasi la sua casa, ma ieri sera il concerto è stato spettacolare!”. Ed era assolutamente vero. Per avere anche una vaga idea di cosa fosse Rory in quella stagione basterebbe ascoltarsi “Stage Struck”, tirato, limpidissimo, perfettamente intonato, tanto fortemente blues quanto assolutamente rock, heavy rock: un dio in terra del rock blues con una facoltà rara di saper scrivere splendide canzoni. E dopo la prima ora e mezza senza interruzioni, mozzafiato, Rory si sedeva su uno scrannino, imbracciava la chitarra acustica e faceva cantare tre brani acustici a 65mila-o-quanti-mai -fossero rockers incazzati… ”As the crow flies”, “Out on the western plain”. Da brividi. La prima sera dormimmo come tassi, nonostante una digestione un po’ difficoltosa favorita da birre e Coca Cola; non è che gli inglesi avessero la mano leggera con le salse.

Il sabato eravamo emozionati : il gran giorno degli Iron Maiden, spinti all’inverosimile dalla loro etichetta che regalava gadgets di ogni genere, dei simpaticissimi Samson e dei Broken Home, tutti frequentatori del Club, ma era Pat Travers l’ospite speciale e gli UFO l’ultimo concerto della notte. I Maiden suonarono il concerto della vita e al tendone della casa discografica erano così esaltati da strafregarsene dei dolci e delle bibite. Noi no, li avevamo visti per giorni che ora ci pareva molto più importante riempire le borse: non saremmo più tornati nel backstage per ore… e poi, avevo la cassettina registrata per risentirmi il tutto con calma… Una voce che circolava diceva che gli Ufo, che avevano appena perso il divino Michael Schenker, avrebbero presentato un chitarrista nuovissimo, speciale, e c’era una enorme curiosità in merito, dato che il gusto di Phil Mogg per i chitarristi era noto. Pat Travers suonò la sua ora meritandosi un doppio bis, “Statesboro Blues”, raramente concesso dai tempi strettissimi, mentre i Samson, ottimo spettacolo, eccedettero solo con un batterista ingabbiato e incappucciato, un modo tutto personale per sottolineare la forza della sezione ritmica che non è che, ricordo, avesse fatto impazzire i critici dell’epoca. Sullo spettacolo niente da dire: Bruce Bruce, non ancora Bruce Dickinson, sfoggiò una voce da far invidia a Gillan e Persino la chitarra “a banana” di Samson lasciò una eccellente impressione.

Alle dieci e mezza, con un briciolo di ritardo poco inglese, si spensero tutte le luci del palco e i laser iniziarono a tagliare il cielo. Il rumore di un elicottero… Improvvisamente cinque paracadutisti con luci attaccate al sedere sbucarono dal cielo, atterrando a un pelo dal retropalco: erano gli UFO che atterravano a Reading! Pochi secondi dopo Moggy attaccava “Lettin Go” e Paul Chapman iniziava a stravolgere le canzoni imparate a memoria con Michael alla solista. Sarà stata l’emozione, saranno stati i pasticcini inumiditi, ma io ricordo che adorai quel concerto ed ancora oggi apprezzo moltissimo il lavoro di Chapman, così come ancora oggi, quando voglio rilassarmi con un hard rock melodico ed una gran voce che interpreta dei gran pezzi, mi ascolto “Strangers in the night” o mi seleziono la facciata live di “Headstones”, proprio con Chappo alla solista. Ed ho ancora in mente un’immagine inusuale, di un pubblico strabocchevole e catturato e di un solista bravo e personale, potente, ma come imbarazzato, impacciato alla sua prima uscita importante, e che veniva spinto, letteralmente, da Phil Mogg al centro della scena durante i suoi assoli, come per dire : “Dai che sei bravo… dimostraglielo… Michael non c’è più !”. Una scena buffa, ripetuta più volte e non certo comune, in mondo in cui cantanti e solisti fanno di tutto per rubarsi l’attenzione del proprio pubblico. Roba d’altri tempi. Oppure roba d’altri personaggi… non so se avete presente la discussioni in casa Sabbath per chi dovesse starsene al centro del palco?!”

 

Nella foto: la locandina di Reading 1980

 

Mi sembra che siano passati solo pochi mesi, eppure stiamo parlando dell’estate di trenta anni fa, una estate speciale per il rock, un momento particolare dove, per un attimo, noi appassionati di rock siamo stati se non accettati, per lo meno diciamo meno derisi. Per una volta mi potevo sentire… come tutti gli altri, perché eravamo davvero tanti! Perché se solo qualche anzianotto avrà voglia di ricordare, non è che le recensioni di quei tempi, se escludiamo quelle di parte, fossero così positive. Anzi, ricordo che nonostante la breve estate del rock, la manciata di anni in cui sembrò che persino da noi tutto questo potesse divenire un fenomeno di costume, tutto rientrò nella norma: rock era la musica per ragazzini ignoranti, metallari violenti e tonti, musicisti di scarso valore, magari pure filonazisti. Ecco perché non posso accettare, personalmente, le moderne ridicole tendenze che screditano quarant’anni di onorata militanza nel rock and roll di ogni colore e forma. Sono le volte in cui mi trovo in sintonia con Lillo e Greg e con la loro invenzione del personaggio di “610”, Giuseppina Baratro… se mai l’avete sentita, sapete di cosa io stia parlando.

Ma fu forse la domenica il giorno più rock di tutti, con altri immensi headliner a chiudere e con una robusta manciata di quei “ragazzi del Marquee” in odore di fama. Mi ricordo che quel giorno non si parlò altro che della rinuncia di Ozzy a fare l’ospite speciale; lui, con i suoi freschissimi Blizzard of Ozz avrebbero dovuto dare il via ai festeggiamenti per il concerto di chiusura ma non si mostrarono. Ancora oggi, trent’anni dopo, leggo ogni tanto spiegazioni di ogni genere a quella assenza, anche se ritengo che la versione che orecchiai nel retropalco fosse la più credibile. Il gruppo non solo non aveva ancora assimilato il nuovo repertorio, ma lo stesso Ozzy, in assoluta paranoia per la nuova avventura solista dopo la cacciata dal gruppo per motivi di assoluta non gestibilità dovuta all’uso di droghe, aveva preferito rimandare il debutto. Partiamo da lì. Da quella assenza che si trasformò in un trionfo per un gruppo di cui avevo sempre sentito parlare ma che non avevo mai visto dal vivo. E che se avessi dovuto giudicare dalle recensioni lette in Italia avrei seguito dal backstage mangiando tartine. Ma fu il popolo di Reading a farmi capire che qualcosa stava per accadere e decisi di restare nell’area riservata ai gaudenti. Gli Slade di Noddy Holder non erano solo un gruppo rock and roll, non erano solo dotati di un senso dell’ironia e dello scherzo spiccato, erano anche degli eroi per la working class inglese, i progenitori del glam rock insieme ai più semplici Sweet. Il loro slang, pieno di parole in uso solo al popolino, i loro riferimenti continui al calcio e alle squadre più povere, la loro voglia di divertire senza voler lasciare altro che un sorriso – e forse per questo i censori italiani non li accettavano: per loro la politica si faceva cantando certi testi e tornando in villa e restandoci alla fine del concerto! – li condusse a un trionfo che, ricordo perfettamente, solo qualche tempo fa venne celebrato su un noto mensile rock anglosassone con una lunga intervista a Holder che riviveva quel giorno come “il giorno che gli Slade convinsero 60.000 metallari”! Nell’ora di concerto, tutti i classici, imperdibili come “Cum on feel t’ noize”, “Mama weer all crazee now”, “Gudbuy T’Jane” vennero conditi con lanci di carta igienica (un’usanza tipica degli stadi di calcio inglesi, ai tempi), con organizzati cori sui ritornelli, con un’energia istintiva, brillante. Rara. E Reading si innamorò. Fu uno spettacolo vedere un mare di mani e di ragazzi muoversi, saltare, ballare, ridere ai ritmi essenziali ma memorabili di quello spettacolo. Alle loro battute. Ancora oggi, ogni tanto, amo provare a riascoltare quel nastro; e non ho mai saputo né capito se fosse mai uscita una registrazione ufficiale di quella serata. Perché certe volte il fascino di una cosa viene più facilmente rievocato anche da un vecchio, sgangherato, consunto nastrino analogico. Pieno di splendide note.

Ma prima degli Slade, Reading aveva potuto vedere quello che i frequentatori abituali del Club avevano già ben conosciuto: una raffica di nuovo heavy rock mescolato ad alcune già-rodate-allora glorie… La giornata venne scaldata dagli Sledgehammer che non ebbero poi gran fortuna pur apparendo su qualche compilation dedicata ma che, devo ammettere, non mi dispiacevano per niente. Poco dopo loro Tygers of Pan Tang, il gruppo dove iniziava a fare sfracelli John Sykes ma di cui non sono mai riuscito ad apprezzare le composizioni pur amando il solista ed i Girl di Phil Collen che se ne andarono al massacro con lipstick e movenze femminee di fronte a una audience che era pronta a inchinarsi a Noddy Holder ma non ai rossetti ed al glam rock. Un mezzo suicidio che i Girl pagarono con una fama brevissima che garantì, comunque a Collen sufficienti onori per passare, tempo dopo, ai Def Leppard, il gruppo che si esibì con buon risultato poco prima degli ospiti speciali. Tra loro e gli Slade passarono Magnum e Budgie, due gruppi ben noti ed apprezzati. Questi ultimi in particolare ricordo che ottennero un buon responso dal pubblico con un hard rock melodico ma decisamente tagliente. Ci fu anche spazio per un gruppo “del Marquee”, gli Angelwitch, che suonarono a metà pomeriggio, lasciarono un profumo di buone cose e saltarono nel buio dei dodici mesi in cui riuscirono a entrare nel mito con un solo disco ed un centinaio di litigate…

Nella foto: un foglietto pubblicitario per gli Angelwitch al Music Machine (11 sept 1980)

 

Dopo fu solo David Coverdale con i suoi Whitesnake. Coverdale, esuberante e pomposo, presuntuoso e magnifico come solo lui sapeva essere ai tempi, presentò la formazione migliore che abbia mai avuto nonostante gli anni splendidi con Steve Vai che io ho amato. Ma il sapore dei settanta e le lunghe cavalcate a metà tra hard e blues con i due solisti Moody e Marsden fecero di quello spettacolo “lo show” che David potrà raccontare ai nipotini, se mai ne avrà. Ricordo un immenso concerto di rock blues. Ricordo il freddo di quella domenica notte, le pile del registratore che se ne andarono prima del bis, il ghiaccio marmato dei panini rimasti troppo a lungo nelle sacche ed un maglione a lungo rimpianto che se n’era rimasto solo, in camera… perché tanto non sarebbe servito: faceva caldo, quell’estate. Ricordo le orecchie fischiare a lungo dopo la fine della giornata, tirata, bella tosta. E ricordo un treno partito senza di noi, finalmente addormentati fino a tardi senza necessità di scappare davanti a un doppio palco a giocare ai giornalisti musicali professionisti, una figura che dalle nostre parti è riconosciuta solo a una manciata di scrittori sotto contratto per quei tre o quattro quotidiani che contano. E poco conta se costoro, ogni tanto, magari recensiscono un Elton John sul palco di Sanremo, scrivendolo il giorno prima che il cantante inglese dia forfeit. Sono professionisti. Succede.

Ricordo che senza saperlo, in quei giorni, per una serie di casualità sono stato testimone della nascita di quella generazione di heavy rock che oggi rappresenta per voi che leggete quello che ha rappresentato per me quello che avrei voluto veder nascere: la generazione dei Led Zeppelin, dei Sabbath e dei Purple, insieme a mille altri. Ma avevo solo 14/15 anni ed ero troppo giovane per andare a respirare la storia dentro quel clubbino di Soho, tutto nero, dall’entrata stretta e dal palco troppo basso, ma con una acustica perfetta ed una bar piccolino, proprio a fianco dell’entrata.

Il club dove a me è venuta voglia di scrivere, a Luca e Piergiorgio di fotografare ed a tanti altri è capitata la possibilità di diventare una fetta di quella Storia del Rock che ci accompagna ogni giorno, fino alla fine dei nostri giorni. E mi vengono in mente le parole di un monologo di Gaber, quello che parla “Dei posti giusti”, di quelli dove passa la Storia che, come sia sa, ti passa vicino una sola volta nella vita. E non sempre si fa riconoscere… E chissà quando capiterà ancora un fine settimana come quello… anche se, in sincerità, anche quello dell’anno successivo, non fu da dimenticare, così come quell’altro Festival, quello organizzato a ridosso di una curva di un circuito motociclistico… ma per parlare dei festival dell’anno dopo abbiamo ancora un anno per festeggiare i trent’anni. C’è tempo.

Giancarlo Trombetti