Live Report: British Steel Fest a Bologna

Di Angelo D'Acunto - 21 Novembre 2010 - 13:03
Live Report: British Steel Fest a Bologna

Ecco a voi il resoconto del British Steel Fest di Bologna, serata che
ha visto esibirsi sul palco una buona parte delle band che hanno fatto la storia
dell’heavy metal di stampo inglese (con l’unica eccezione dei “nostri” Crying
Steel
) e che si sono ritrovate sul palco dell’Estragon per festeggiare nel
migliore dei modi i trent’anni della New Wave of British Heavy Metal.
Attesissimo sicuramente lo show dei Diamond Head di Brian Tatler (che,
finalmente, ritornano su suolo italico) e, soprattutto, ancor più significativa
la prima data assoluta nel nostro paese degli Angel Witch. Una serata
che, come vedremo, risulterà essere piuttosto vincente, e che sarà difficile da
dimenticare per chi era presente.

Report a cura di Angelo D’Acunto, Lorenzo Bacega e Stefano “Steven Rich”
Ricetti
Foto a cura di Angelo D’Acunto

Elixir

Se la defezione improvvisa dei Weapon (i quali, hanno perso
l’aereo, in pratica) rischia di far cominciare malamente questa prima e
attesissima edizione del British Steel Fest, gli Elixir invece, ai quali tocca
l’arduo compito di aprire il festival con qualche minuti d’anticipo rispetto
all’orario previsto, rimettono subito le cose a posto con una esibizione a dir
poco perfetta. D’altro canto, però, i suoni soni inizialmente un po’ troppo
confusi, per poi riassestarsi verso la metà dello show. La band è comunque al
massimo della forma e i presenti (piuttosto numerosi, nonostante l’ora)
dimostrano di apprezzare. Paul Taylor e soci convincono in pieno, dunque, con
una scaletta ben equilibrata che attinge sì dal vecchio repertorio, lasciando
però anche spazio a pezzi più recenti e tratti dall’ultimo “All Hallows Eve”.

Angelo D’Acunto
 

 

 

Grim Reaper

Uno dei fiori all’occhiello di questo British Steel Fest è
sicuramente la presenza dei britannici Grim Reaper, ai quali il vivace pubblico
bolognese riserva un’accoglienza a dir poco calorosa e trionfante. Preso per
mano dallo storico frontman Steve Grimmett (autore di una prova complessivamente
convincente dal punto di vista vocale, nonostante qualche leggera imperfezione
palesata nella seconda metà del concerto), il quartetto di Droitwitch,
supportato da suoni all’altezza della situazione, offre in pasto ai presenti uno
spettacolo tutto sommato avvincente, decisamente intenso e senza tanti fronzoli,
ma al tempo stesso costellato da qualche imprecisione di troppo – specialmente a
livello ritmico. La scaletta offerta nei quaranta minuti circa a disposizione
pesca a piene mani dai tre full length pubblicati dal gruppo inglese, e vede
alternarsi brani del calibro di Rock You to Hell, Night of the Vampire, Lust for
Freedom, Rock Me ‘Till I Die e Waysted Love (estratte dall’ultimo Rock You to
Hell, pubblicato nel 1987), di Fear No Evil (tratta dall’omonimo disco del
1985), oppure di Liar e Wrath of the Ripper (provenienti invece dal debut See
You in Hell, risalente al 1983). Grande emozione tra i presenti quando la band
ricorda lo scomparso Ronnie James Dio, omaggiato con una cover (non troppo
riuscita a dire il vero) di Don’t Talk to Strangers, prima di congedarsi dal
pubblico con una tirata See You in Hell che mette definitivamente la parola fine
allo show.

Lorenzo Bacega
 

 

 

Demon

Ore 18:30 circa: dopo una breve pausa per il consueto cambio di
palco, arriva quindi il momento dei Demon. Al cospetto di un pubblico ormai
decisamente numeroso raggruppatosi all’interno dell’Estragon, il sestetto di
Trent, guidato dal frontman Dave Hill, si rende protagonista di una performance
estremamente trascinante, praticamente impeccabile sotto il profilo esecutivo, e
altrettanto efficace a livello di presenza scenica. La setlist si apre nel
migliore dei modi: Night of the Demon e Into the Nightmare (ambedue estratte dal
debut album Night of the Demon, 1981) sono due veri e propri pezzi da novanta,
magistralmente interpretati dalla formazione inglese e capaci di scaldare a
dovere la maggior parte dei presenti. Lo spettacolo prosegue in maniera assai
scorrevole senza particolari intoppi, con una scaletta piuttosto bilanciata
nella quale trovano posto i grandi classici del gruppo, come ad esempio Sign of
a Madman (da The Unexpected Guest, 1982), Liar (anch’essa estratta dal già
citato Night of the Demon), Life in the Wire (tratta da Breakout, 1987) e l’azzeccatissimo
medley Blue Skies in Red Square / Commercial Dynamite (entrambe provenienti da
Taking the World by the Storm, 1989), ma che allo stesso tempo non trascura la
produzione più recente del gruppo, qui rappresentata dall’ottima Standing on the
Edge (direttamente dall’ultimo Better the Devil You Know, 2005). Chiusura con il
botto con la immancabile Don’t Break the Circle, che conclude uno show oltremodo
intenso e prodigo di emozioni, sicuramente tra i migliori della giornata.

Lorenzo Bacega
 

 

 

Crying Steel

Sulla locandina del Loro meet’n’greet vengono definiti come
“Local Heroes”. Giustamente, visto che da bolognesi suonare all’interno di un
bill irripetibile come quello del British Steel, oltre a porre una significativa
tacca nella “stecca” della carriera, premia anche la Loro voglia di tornare a
crederci come un volta, nonostante dolorose ma inevitabili dipartite – per
motivi diversi – come quelle accadute con due pilastri del livello di Alberto
Simonini e Luca Bonzagni. La Wild Card da fuori contesto – sono l’unico gruppo
non inglese della rassegna – se la giocano bene, nei ¾ d’ora a disposizione.
Dopo l’intro di turno l’attacco di No One’s Crying aiuta a spezzare la tensione
cosicché il bombardamento metallico all’italiana possa avere inizio. Raptor,
Next Time Don’t Lie e Let It Down scorrono veloci e violente fino ad arrivare al
primo inedito assoluto: Defender. Brano che “tiene fede” al proprio blasone e
spacca di brutto, “in the name of the Saxon”, per ardore British e pulizia
sonora assassina. Running Like a Wolf apre alla seconda new entry, intitolata
Beverly Kills, che fatalmente non lascia traccia, denotando la propria
idiosincrasia alle assi di un palco, per via di ritmi spezzati che poco si
adattano alle performance dal vivo. Hero anticipa l’highlight tanto agognato da
tutti gli amanti dell’HM italico con gli attributi: Thundergods è la solita,
sfacciata, mazzata di heavy metal purissimo e veloce nello stomaco,
probabilmente il brano che sancisce il definitivo lasciapassare al singer
Stefano Palmonari dietro a quel microfono che fu di un grande interprete come
Luca Bonzagni. La “macchina” Crying Steel è tornata a rombare come sa,
appuntamento al 2011 per il nuovo disco.

Stefano “Steven Rich” Ricetti
 

 

 

Diamond Head

Ore 21:00. Con un quarto d’ora esatto di ritardo sulla tabella
di marcia salgono sul palco i Diamond Head di Brian Tatler, a parere di chi
scrive tra i gruppi più attesi della giornata insieme agli Angel Witch. Ma
andiamo per ordine: la band, in un comunicato ufficiale, aveva annunciato questo
tour (e, quindi, anche la data bolognese) come un’occasione per festeggiare i
trent’anni passati dall’uscita di “Lightning To The Nations”, album che
avrebbero suonato nella sua interezza… ma così non è stato, purtroppo. D’altro
canto, escluse queste due note negative, il resto dello show della band inglese
è stato a dir poco perfetto e, ovviamente, coinvolgente e convincente sotto
tutti i punti di vista. Convince soprattutto una band ormai ben rodata, con le
sei corde di Brian affiancate da un ottimo chitarrista come Andy Abberley, ed
una sezione ritmica dove a guadagnarsi la palma d’oro è il drumming preciso e
violento di un Karl Wilcox letteralmente d’applausi. Discorso a parte invece per
un Nick Tart sulle cui spalle pesa anche tutt’ora il paragone con Sean Harris,
ma che comunque offre ai presenti un’ottima prova (grazie a qualità vocali tutt’altro
che scarse), seppur trovandosi molto più a suo agio sui pezzi più recenti,
rispetto già ai classici degli anni ’80. Resta comunque il fatto che Tatler e
soci, pur apparendo piuttosto freddi e distaccati (escluso il bassista Eddie
Moohan, che pare divertirsi come un ragazzino), riescono a mettere in atto uno
show pirotecnico che, grazie anche a volumi decisamente alti, fa letteralmente
tremare le pareti dell’Estragon. La setlist attinge comunque a piene mani
proprio da “Lightning To The Nations”, con pezzi come la stessa title-track,
oppure brani come “Sucking My Love” e “It’s Electric” che, dal vivo, risultano
essere a dir poco devastanti. In mezzo a tutto questo la band non dimentica
nemmeno i dischi più recenti, dove le più che buone “Give It To Me” e “Pray for
Me” non sfigurano poi così tanto se messe a confronto con i capolavori del
passato. La chiusura, affidata ad un classico immancabile come “Am I Evil?”
(cantata da tutti i presenti), pone fine ad uno show forse un po’ troppo breve,
ma comunque intenso come pochi e che rimarrà a lungo fisso nella memoria di
tutti i presenti.

Angelo D’Acunto
 

 

 

Girlschool

Alle ore 22 e 10 precise le Girlschool di Denise Dufort, Kim Mc
Auliffe ed Enid Williams partono puntando sul sicuro sparando, nell’ordine,
capisaldi della portata di Demolition Boys, C’mon Let’s Go, Not For Sale, Hit
And Run e Never Say Never. Soprattutto durante i primi brani le Nostre denotano
un amalgama perfettibile, poi però le Scolarette più famose della storia dell’HM
si riprendono prontamente e dopo l’esecuzione di altri pezzi culminano la
performance con l’immortale Emergency, probabilmente il brano più apprezzato. La
ricetta della Loro proposta sonora mista di “Rock’N’Roll&Motorhead” e simpatia
espressa funziona sempre o quantomeno diverte, che è poi quello che conta quando
ci si reca a un concerto. L’innesto della “nuova” Jackie “Jax” Chambers – si fa
per dire, visto che c’è dal 2000 – ha portato alle Girlschool quel tocco biondo
platino di femminilità sexy che non guasta mai di fronte a un’audience
prevalentemente maschile come quella del British Fest anche se la compianta
Kelly Johnson, a livello di resa sul palco, era un’altra cosa. Fa sempre
piacere, comunque, constatare di persona come queste ragazze degli anni ’50 – o
su di lì – si siano mediamente conservate bene – tranne qualche evidente
eccezione – e riescano ancora oggi a esprimere on stage la carica aggressiva dei
bei tempi, o quasi.

Stefano “Steven Rich” Ricetti

 

 

 

Angel Witch

Attesissimi, per la prima volta in Italia dalla Loro nascita
(1978), gli Angel Witch capitanati dalla leggenda vivente Kevin Heybourne
raccolgono gli Osanna del pubblico radunatosi all’Estragon già dal pomeriggio,
quando fanno la Loro comparsa all’interno dello stand della rivista Classix
Metal per il doveroso Meet&Greet, tanto che le transenne vacillano più volte
sotto la spinta dei fan. La curiosità nei riguardi del combo londinese è
ulteriormente incrementata dalla presenza in line-up di un chitarrista “anomalo”
come Bill Steer, colonna dei deathster Carcass, alle prese con una proposta
puramente e fieramente Nwobhm come quella degli Angel Witch.

Accompagnati da un sound dalla potenza devastante, all’altezza dei tempi e del
Loro nome, i Nostri aprono con Gorgon, subito seguita da Confused, per poi
letteralmente saccheggiare – come ci si aspettava ed era giusto che fosse – il
Loro album omonimo: Sweet Danger, Sorcerers, Atlantis con il climax raggiunto
durante le esecuzioni di White Witch e Angel Of Death. Fuori dal coro Flight 19,
The Night Is Calling e Dr. Phibes, sempre e comunque pezzi d’antan della
discografia. Kevin Heybourne si dimostra interprete assolutamente proponibile –
anche se freddo nei confronti degli astanti -, così come Bill Steer palesa una
buona integrazione con il resto del gruppo per una performance che non segna
cali di tensione sensibili. Tornando al monumentale disco omonimo, manca
all’appello Free Man, ma non si può aver tutto dalla vita. Interruzione di
prassi più che per necessità ed encore affidato a due bombe come Baphomet e
soprattutto “Angel Witch”, molto probabilmente il brano più bramato dal pubblico
in tutta la giornata – insieme con Am I Evil? dei Diamond Head – a chiudere
un’edizione irripetibile e imperdibile di un festival surreale, realizzando che
siamo nel 2010. Un bill siffatto costruito appositamente sotto la vecchia Union
Jack avrebbe avuto luogo probabilmente – o forse addirittura no – solo a Reading
negli anni Ottanta, ma sicuramente NON in Italia.

Esiste l’adagio: “I sogni sono meravigliosi finché restano tali, deludenti
quando si realizzano”.

Nella notte – magica per chi l’ha vissuta con la “pancia” – consumata a Bologna,
per una volta, non è stato così. Nwobhm still rulez!

Stefano “Steven Rich” Ricetti