Recensione Libro: ‘Dawn Of The Metal Gods – My Life in Judas Priest and HM”

Di - 9 Giugno 2010 - 12:10
Recensione Libro: ‘Dawn Of The Metal Gods – My Life in Judas Priest and HM”

Dawn of the Metal Gods: My Life in Judas Priest and Heavy Metal
by Al Atkins and Neil Daniels

224 pagine
Iron Pages Books
Anno 2009
ISBN-10: 3931624560
ISBN-13: 978-3931624569
21 x 14.8 x 1.2 cm


http://www.ip-verlag.de/

Al Atkins è una brava persona, un metallaro tutto d’un pezzo che si emoziona come se fosse ancora un musicista agli esordi quando qualche appassionato gli chiede l’autografo o una foto insieme. Già, perché Allan John Atkins da West Bromwich, oggi singer degli Holy Rage, 62 primavere e mezzo sul groppone, fa parte a pieno merito dell’élite dell’HM mondiale in quanto fu l’uomo che inventò un gruppo leggendario da decenni sulla breccia come i Judas Priest. Accadde nel lontano 1969, quando, in compagnia dell’amicone di sempre Brian “Bruno” Stapenhill – colui che diede il nome alla band, ispirandosi al brano di Bob Dylan “The Ballad Of Frankie Lee And Judas Priest – e altri giovani virgulti della working class inglese diede inizio a quella che universalmente viene riconosciuta come una delle leggende viventi del firmamento musicale duro. Dawn Of The Metal Gods, che vede la luce sotto l’egida della Iron Pages, ripercorre molto attentamente e analiticamente – a tratti forse anche troppo, come quando il buon Al indugia sul proprio parentado tutto a inizio libro – la Sua storia tramite la collaborazione del giornalista Neil Daniels: un vissuto fatto di successi, delusioni, stenti, gloria postuma, album solisti, lavori normali, speranze e tanti, tanti aneddoti interessanti.

Successivamente alla puntuale narrazione degli anni iniziali delle vicende legate ad Al, dopo un demo targato ’79 esce nel 1971 il primo 7” contenente i pezzi Holy Is The Man e Mind Conception e i Judas Priest si modificano nella line-up fino ad annoverare, nella versione “Mark IV” – periodo 1972/73 -, Ian Hill e KK Downing, che affiancano lo stesso Atkins e Chris “Congo” Campbell, un pittoresco batterista di colore dalla chioma incredibilmente folta, in pratica l’equivalente britannico di Silvano Michetti dei Cugini Di Campagna. I Nostri si fanno strada a colpi di supporting act durante le performance di colossi del calibro di Black Sabbath, Budgie, Thin Lizzy, Slade e Status Quo. Poi, incredibilmente, un giorno del 1973, l’infaticabile fondatore, l’unico membro della formazione originale, tale Al Atkins, lascia per sempre il gruppo.

Alla base di tutto la frustrazione per non essere stato ripagato, sia in termini economici che di soddisfazione personale, per tutto il mazzo che si era fatto inutilmente, arrivando anche a patire la fame per quel sogno chiamato Sacerdote di Giuda. I motivi però sono molteplici e solamente gustandosi riga dopo riga lo scorrere degli avvenimenti e delle varie situazioni si riesce a farsi un’idea completa del “perché”… fra “musi”, silenzi, litigate, cospirazioni e, per finire in bellezza, addirittura “cazziate” inaspettate. Davvero esilarante, poi venire a sapere come Ian Hill e Kenneth “KK” Downing scoprirono le doti canore di Robert Halford da Walsall.

 

Il libro ripercorre con dovizia di particolari il periodo dal 1969 al 1973, svelando man mano i chiaroscuri che in quegli anni si annidavano nel cervello del leader dei Judas Priest, corredando con foto d’epoca strabilianti il racconto, interrotto di tanto in tanto da mini-interviste ad esponenti legati in qualche modo agli avvvicendamenti. La cosa che rimbalza continuamente nella mente durante lo scorrere delle righe è sicuramente l’affetto con il quale Al tratta i Judas Priest dalla sua dipartita in poi, un comportamento quasi paterno che riesce a prevalere sugli inevitabili momenti di acredine o di rivalsa personale, quantomeno in superficie. Atkins, pressoché per tutta la durata del libro, offre uno spaccato della situazione musicale soprattutto inglese e ne descrive egregiamente l’evoluzione. Accanto alle situazioni tipicamente HM vengono citati tanti altri artisti al di fuori del genere. Certo, i passaggi nei quali il Nostro si addentra attraverso la descrizione di quel magnifico fenomeno che fu la Nwobhm sono da incorniciare, rispetto al resto, laddove giudica i vari big e i comprimari. L’opera arriva quasi fino ai giorni nostri, trattando prima il periodo Lion, poi quello solista per finire con gli Holy Rage, ossia l’ultima incarnazione musicale in casa Atkins.

L’introduzione del libro è affidata a Ian Hill, che in una sola pagina rimembra i favolosi tempi che furono protagonisti della propria gioventù musicale, lasciando poi spazio al racconto di Allan. Al momento Dawn Of The Metal Gods è disponibile solamente in lingua inglese – nella fattispecie di interpretazione sufficientemente fruibile per chi lo mastica quanto basta, peraltro – e presumo che difficilmente vedrà la luce in italiano nel futuro prossimo, proprio perché trattasi comunque di uscita di nicchia.

Stefano “Steven Rich” Ricetti