Consigli Non Richiesti di Giancarlo Trombetti (# 9)

Di Stefano Ricetti - 1 Febbraio 2011 - 12:30
Consigli Non Richiesti di Giancarlo Trombetti (# 9)

Due puntate dei Consigli Non Richiesti di Giancarlo Trombetti  in un colpo solo. Il filo conduttore va ricercato, come al solito, nella voglia di approfondire piuttosto che in quella del piacere di stupirsi leggendo…

Steven Rich

CNR 9 – IL SUD

 

Una volta mi sono sposato. Si è trattato di una cosa accaduta molto tempo fa ed ha avuto, come molte altre cose, una sua fine. Ma non è questo che conta. All’epoca lavoravo tra i monti della Toscana e sembrò cosa necessaria trovare una abitazione; meglio se fosse una che mi piacesse pure. Così mi organizzai – si dice sempre così quando è necessario ricorrere alle banche – e trovai un rustico in pietra in cima a un colle, a settecento metri, circondato dai boschi e con vista sulla Valle. A me pareva una reggia e comunque l’impegno economico profuso lo faceva sembrare tale in ogni caso. Poi, con il mutare del corso della vita, la casa venne abbandonata, poi ripresa, poi messa in vendita, poi non venduta ed infine restaurata del tutto.

Oggi fa parte dei miei interessi, meglio sarebbe dire delle mie passioni, e, tra mille sforzi e impegni, è divenuta una holidays house, ossia una casa vacanze che in certi periodi dell’anno affitto a stranieri e famiglie in cerca di pace e in preda al fascino della Toscana. E che la mia Regione abbia una notevole influenza sull’immaginario degli anglosassoni in genere, lo dimostra, in piccolo, il ridicolo invito del cuoco con accento napoletano che nel film di Eastwood, Hereafter, invita i suoi discepoli a imparare a fare “un bel sugo di ragù con i pomodori toscani”. Un delirio. Ed il film una palla interminabile. Ma non divaghiamo.

Tra le mille piccole occupazioni che ti rubano tempo quando hai ospiti, oltre a mantenere pulita l’area verde, ascoltare pazientemente le loro richieste, fornire indicazioni continue, regalare suggerimenti e cortesie, arriva anche il momento utile, almeno per me: la chiacchierata in lingua quando si tratta di inglesi o americani. E se l’ospite è piacevole e arguto, direi anche che diventa piacevole il piccolo trucco usato per mantenere viva una lingua e imparare qualche nuovo modo di dire. Così, dopo una giornata o due di studio per capire se e quanto i miei ospiti hanno intenzione di lasciarsi andare a confidenze, se il gruppo pare di quelli “adatti”, si comincia a parlare di Italia e si finisce a discutere di Inghilterra, Irlanda, Stati Uniti. Gli americani li adoro. Semplici e dozzinali, si stupiscono di tutto.

Come un gruppo di giapponesi con le loro macchinette digitali che fotografano ogni dettaglio, pongono domande così banali e prive di conoscenze storiche – almeno per noi europei – da fare tenerezza. E quando sono riuscito a soddisfare quasi tutte le loro infantili curiosità, tocca a me cercare di carpire un brandello della loro cultura. O presunta tale. Spesso, vi dirò, si riesce pure a parlare di musica, perché molti hanno le loro passioni e le loro radici, e quelli che dormono in quello che fu il mio studio, non possono non notare i libri e le foto appese al muro (quelle non le ho toccate nel trasferimento in altro luogo) e comprendono subito i miei interessi musicali. Facile, dunque entrare in argomento. Facile quasi con tutti. Ogni tanto c’è qualcuno più ostico e di solito si tratta di chi proviene dalle capitali o dalle grandi città. I londinesi in primo luogo, gente con la puzza al naso e convinti di abitare solo loro nel mondo civile mentre il resto del Pianeta guida a destra (Oddio!) e non ha il verde con l’erbetta alta due centimetri come a Hyde Park nel bel mezzo di un bosco ed i newyorkesi, anche loro altrettanto convinti di vivere al centro del mondo con il resto che ruota intorno a loro.

 

Londra

Ecco, con questi l’approccio è sempre più rugginoso. Ricordo che tre anni fa ebbi ospiti due famiglie da New York la cui matriarca – importante donna di affari, lui, il marito contava quanto il due di picche quando regna a cuori – ogni tanto concedeva al consorte, di perdere un po’ di tempo con “l’italiano” a chiacchierare di Zappa, di cui condividevamo il culto. E ricordo che un pomeriggio, anche lei, la matrona, decise di sedersi di fianco a noi, sorseggiando un bicchiere di vino, ad ascoltare cosa avessimo da dirci. Ad un certo punto, con cortese fermezza ma con uno sguardo dubitativo, la tipa mi ricordò che, appunto, nella stanza in alto a sinistra, c’era un manifesto del glorioso Fillmore West incorniciato, oltre a un libro, in inglese, che narrava le gesta dei gruppi di San Francisco anni sessanta.  Ecco, io, a quel punto, certo di fare cortesia ai miei ospiti e sicuro di toccare il loro orgoglio nazionalista, ebbi a sostenere che…“io adoravo i gruppi provenienti da San Francisco in quell’epoca, che li ritenevo fonte inesauribile di ispirazione, di creatività, di desiderio di sperimentare e che, senza di loro, forse neppure i Beatles avrebbero mai partorito Sgt Pepper’s!”.

Dal mio punto di vista, era un po’ come dire a una donna che rassomiglia moltissimo all’Angelina Jolie. Ero sicuro di avere stimolato il loro orgoglio. La Signora non si mosse, non batté ciglio. In compenso mi chiese se nutrissi analoga affezione per alcune delle band elencate dal manifesto. In particolare per The Allman Brothers Band, primi in cartellone. Convinto di farle piacere e contemporaneamente già pronto a una bella discussione sul Sud degli Stati e sulle radici nere di quella musica non solo confermai, ma aggiunsi anche un paio di nomi a corredo. La signora arricciò il labbrino superiore, emise un mugolio poco convinto sfoggiò il sorriso di circostanza di chi proprio non ce la fa a non dire quello che gli passa per la testa, accavallò le gambe e scandì, con freddezza : “…so you’re telling me that we have a guest  who is a way between an old hippy and a redneck?” (“cosi mi dici che il nostro ospite è una via di mezzo tra un vecchio hippy e un contadino?”). Mi fermai un attimo. Non volevo chiedere se avessi ben inteso perché non solo non sarebbe stato cortese ma anche perché temevo di sottolineare il fatto che mi aveva appena dato gentilmente del vecchio tossico per di più contadino. Sorrisi e nei due nanosecondi che la mia mente mi concesse scelsi di spiegarle ciò che noi europei pensiamo degli americani; ma nel modo politicamente corretto. In fondo loro pagavano per stare lì.

Vedi Michelle, esordii, la differenza dell’approccio tra gli europei e gli americani è che voi continuate a soffrire della mancanza di radici. Perché non ne avete. Noi ne siamo contornati, al punto che non ce ne accorgiamo e non le riconosciamo neppure più. Le vostre sono mescolanze occasionali provenienti da una serie di fonti disparate che trovano tutte la loro origine nell’emigrazione. Non è una colpa, però, aver fatto delle gighe irlandesi, del folk britannico, del blues nero degli schiavi e di tutte le loro derivazioni una stupefacente sorgente per una serie meravigliosa di tendenze. Vedi, noi europei non ci domandiamo mai come e per chi componessero Beethoven o Wagner. Oggi possiamo far finta di credere che scrivessero per mecenati illuminati, ma magari componevano per cortigiani puttanieri, gonfi di vino e distesi sui loro divani. Non importa. Noi apprezziamo i risultati, la creatività, il genio. Voi avete creato dalla sofferenza dei negri e dalla loro tristezza per essere stati strappati alle loro capanne in Africa la più bella musica del mondo e noi l’abbiamo giudicata e amata per quello che è non per quello che ha rappresentato. Voi sfuggite da un passato che non avete, e quando lo avete non è che sia da raccontare; noi amiamo quello che siete riusciti a inventare, quasi dal nulla…”.

Poi mi appoggiai alla sedia e detti una bella sorsata di Coca fresca. L’avevo in pugno, e anche facendola sentire importante, pensai. La tipa scosse leggermente la testa, dette un’occhiata alla valle, sorseggiò a sua volta il vinello toscano e sussurrò con accondiscendenza…

Può darsi che tu abbia ragione, ma la realtà è che per noi la musica che tu apprezzi tanto è sinonimo di rednecks, di colli rossi, di contadini che si bruciano il collo, appunto, lavorando all’aperto, di rozzi bevitori di qualche sottomarca di whiskey, di campi sterminati coltivati a granturco, di solidarietà sudista, di attaccamento cieco alla bandiera sudista e agli Stati schiavisti, di strade polverose e di chitarre sparate per decine di minuti senza una meta, di casino al sabato sera dopo una settimana di lavoro sui trattori nei campi e di bande di ragazzi con capelli lunghi e capelli da cowboy che scorrazzano ragazze in jeans e fazzoletti in testa su pick up con le corna di bue o i paramucca inchiodati sul cofano e di una sottomissione quasi imbarazzante al cattolicesimo…”.

 

 

The Allman Brothers Band

 

Mentre mi rendevo conto di quanto razzista fosse la visione degli stati del Sud da parte di un newyorkese, mi imbarazzavo pensando che, tutto sommato, non divergeva di molto da quella di un milanese che si fosse messo a parlare della musica napoletana e delle abitudini dei locali residenti. La discussione non andò molto lontano, perché il marito la deviò su Zappa e sulle fantastiche informazioni che aveva attinto dai miei volumi piazzati in libreria. Io rinunciai a spiegargli la nostra visione del loro Sud e forse feci pure bene: nessuno di quelli che conosco e che amano gli Skynyrd si sono forse mai soffermati a Jacksonville o l’hanno neppure attraversata. E parlare delle parole italiane americanizzate da Zappa mi parve quasi più divertente.

Fu quando mi trovai da solo che provai a riflettere su quello che mi aveva detto Madame Presidentessa d’Azienda. E mi dissi che, ripensandoci bene, io se fossi stato un americano mi sarei sentito più a mio agio con i colli rossi, con i pick up, il boogie, il rock and roll, il blues, l’honky tonk, il country e la visione un po’ reazionaria di un’America che ancora non ha capito da quale parte stare. Che mi sono sempre goduto molto di più venti minuti di duelli solistici di Duane Allman e Dickey Betts piuttosto che quattro minuti di un raffinato “art rocker” newyorkese e che i fischi tra un pezzo e l’altro di Ronnie Van Zandt mi sono sempre stati più prossimi di una pippa della Laurie Anderson. Che avrei pagato per vedere i veri Allman al lavoro e che non scambierei mai un pezzo dei Government Mule con uno dei Beastie Boys e che, anche se sono irrimediabilmente astemio, preferirei provare a vomitare del Bourbon o del Four Roses piuttosto che sorseggiare un drink col cappellino in un clubbino “a la page” di New York. Che sarà bella e affascinante quanto ti pare, ma che non ha mai partorito musica calda e sudata, ruspante e pulsante, melodica e potente quanto quella che è uscita dai Rodeo Bar di Jacksonville in Florida, dalle cantine di Macon in Georgia, o dalle rimesse di Spartanburg in South Carolina….perché se il rock and roll è il Re, il boogie e il blues ne sono il miglior contorno. E perché la bellezza di quella musica è che tutti i gruppi migliori non sono stati degli eccezionali interpreti, ma hanno anche dimostrato di sapere comporre meravigliose canzoni. Che non è cosa da tutti i giorni…come se laggiù, tra sole a picco e Messico a un passo fosse più facile scrivere e sentirsi ispirati.

 

New York

E m’è tornato in mente quando, trent’anni fa, quasi trentuno, mangiai bacche e lucertole e rincorsi i piccioni di Hyde Park per mangiare e resistere altri venti giorni a Londra, solo perché al Rainbow Theatre c’erano due serate degli Allman Brothers… memorie che ancora mi riempiono gli occhi e le cui cassettine analogiche conservo gelosamente nelle mie vecchie cassette di legno, quelle che ti avanzano quando ti regalano un po’ di vino e che io riempii di musica, un paio di vite fa. E m’è tornato in mente quando ho rischiato il mio unico tamponamento mentre ascoltavo a tutto volume Working for MCA, o quando mi rintanavo in camera mia a consumare “At the Fillmore East” o urlavo a squarciagola Can’t you see, o ancora quando mi sono scoperto capace di zampettare – non si tratta esattamente di una cosa prossima alla danza, quella non me la posso permettere! – ai concerti degli ZZ Top.

Ed ho concluso che Florida, Georgia, South Carolina, Alabama, Oklahoma, Tennessee, Mississippi, Arkansas e Texas saranno le prime cose che attraverserò e dove resterò per qualche mese quando avrò budget e tempo per godermi l’America per tutto il tempo che sarà necessario. E prego Iddio che possa accadere, un giorno, quando avrò trovato un bel pick up consumato da affittare e dove, girando per paesini e bar sperduti, mi sarò fatto venire il collo rosso e abbronzato, giusto per vedere se qualcuno mi scambierà per un redneck. A New York ci andrò, di sicuro, ma solo in fondo al viaggio, per capire come è fatta la città più grande del mondo, che non dorme mai e che non ha un cuore. O almeno non ha uno spazio nel cuore per una musica che ti fa sudare.

DISCOGRAFIA ESSENZIALE DEL SOUTHERN ROCK

Janis Joplin : Cheap Thrills. Una band di accompagnamento che valeva meno della metà della cantante, ma una voce unica, irripetibile ed alcune cose che, ascoltate una volta, diventano indimenticabili. Una pietra di paragone per qualsiasi cantante donna.

The Allman Brothers Band : The Fillmore Concerts. Per una volta possiamo benedire il cd. Tutte le esecuzioni sparse tra “At Fillmore East” e “Eat a Peach” vengono recuperate per una sequenza da sogno. Il blues si mescola alla psichedelica che si mescola al jazz che si mescola alla voce spettacolare di Gregg e poi, le chitarre di Duane e Dickey Betts fanno parte della Storia. Se si trattasse di comprare solo un disco, questo basta per tutti.

Marshall Tucker Band : Where We All Belong . Una miscela di country e rock da ascoltare guidando in autostrada. Con una parte dal vivo che mette in evidenza la linearità  e l’inventiva di Toy Caldwell, un solista eccellente.

Lynyrd Skynyrd : One more from the Road. Se gli Allman erano l’hard blues, gli Skynyrd sono il boogie e l’impatto. Tre chitarre, un piano ed una voce che può competere con quella di Paul Rodgers, il gruppo più sfortunato al mondo che in soli quattro anni ha lasciato un’impronta indelebile, un live che in cd contiene un bel po’ di pezzi in più. Una cosa importante : gli Skynyrd sapevano comporre, oltre a suonare!

ZZ Top : La piccola grande band dal Texas…esistono due periodi, quello anteriore a Eliminator e quello che viene dopo. Così dicono quelli che amano differenziare. Consiglio Fandango e Live From Texas e se qualcuno ce la fa a non saltare sulla sedia e cantare come un fan di Amici della De Filippi, vuol dire che ha il cuore di pietra.

Outlaws : Bring It back Alive. Nascono come country rock band con grandi melodie e strumentali delicati, di ampio respiro e finiscono con l’assalto di questo live che, ricordo perfettamente, un recensore buontempone di Ciao 2001 giudicò come “titolo perfetto per un disco orribile…”riportatemi mio figlio intero indietro direbbe la mamma il cui ragazzo se ne va al concerto degli Outlaws!”.” E’ da avere solo per questa recensione idiota di un idiota.

Molly Hatchet : Dal vivo, al solito, erano una forza della natura. Degli Skynyrd più hard rock e più forzuti. Non si può non suggerire il live e, per chi vuole, anche il primo album.

 

Molly Hatchet – la copertina del primo album

Black Oak Arkansas : Indecifrabili , talvolta, in studio, ottimi, in specie per la forza istrionica del cantante, dal vivo. Dei due live della loro carriera, preferirei un mix ma non potendolo, li suggerisco entrambi.

Johnny Winter And e Edgar Winter Group : I due fratelli Winter rappresentano il lato più conosciuto del blues rock sudista. Johnny è stato uno dei più grandi e scopiazzati interpreti di un blues reso ancor più ruvido dalla sua spettacolare voce. Un chitarrista eccellente ed un interprete sempre ispirato. Dei due è necessario avere Roadwork, un bel live e del solo Johnny i due incredibili live And Live e Captured Live! Una indigestione di hard blues come raramente accade!

Dixie Dregs : Il lato jazzato e progressivo del southern rock grazie all’immensa chitarra di Steve Morse. Le prime cose sono le migliori, a mio parere.

Gov’t Mule : I miei adorati muli….per capire di cosa siano capaci, recuperatevi Live at The Roseland Ballroom, versione seconda stampa, quella giusto un po’ più lunga…e poi correte a comprarvi tutto il resto e scaricarvi qualsiasi concerto dalla rete. La miglior band di hard rock in circolazione attualmente e i più grandi esecutori dei più bei brani che le menti rock abbiano partorito. Grandissimi rocker, immensi, ineguagliabili appassionati. Le loro cover non hanno rivali!

Stevie Ray Vaughan : Il più grande. L’uomo che ha appreso la lezione di Hendrix e l’ha fatta tutta sua; quello che poteva suonare Voodoo Chile fumandosi una sigaretta…una grande perdita e il Live at Montreaux è davvero bellissimo.

The Black Crowes : Più rock and roll che rock sudista, ma sono spettacolari quando prendono il volo e eccellenti quando decidono di fare il verso ai grandi….perché non scegliere il Live at The Greek con Jimmy Page?

…e poi Georgia Satellites, Dan Baird, 38 Special, Rossington/Collins Band, Point Blank, Widespread Panic, Grinderswitch, Bugs Henderson Group, Blackfoot, Charlie Daniels Band…

PS: Natale porta con se troppi dolci e troppe necessità che si accumulano e ti impediscono di dedicarti alla tastiera. Ma se ancora credete che babbo Natale possa passare dopo il periodo riservatogli, continuate la lettura…

 

                A MERRY ROCKING CHRISTMAS

 

Non ci si accorge che i tempi cambiano solo perché per strada si legge sempre più spesso “Hybrid” sul sedere di una piccola auto, brutta come il peccato ma, dicono, particolarmente economica. Te ne accorgi quando il tuo lettore cd muore improvvisamente. Così, quando il mio fedele Sony – regalatomi da una mia antica fidanzata venticinque anni fa nonostante le mie resistenze (“…io non spenderò mai una lira su quei pezzetti di plastica!, ‘fanculo alle case discografiche! Per me c’è solo il vinile!”) e accettato con riluttanza solo ed esclusivamente perché Zappa aveva iniziato a pubblicare i suoi album anche su cd e su quelli apparivano molti più brani rispetto al disco – ha dapprima cominciato a non leggere il brano iniziale, poi a non caricarsi e segnalare “errore”, e poi a non fare più una mazza di nulla, sono stato costretto a dedicare una parte del piccolo budget destinato ai regali natalizi e a infilarmi dentro un negozio di alta fedeltà di cui sono stato, ahimè, grande acquirente di impianti per molti anni per chiedere un sostituto.

Salve, vorrei vedere un lettore cd di quelli classici, “a rack”, possibilmente un Kenwood o un Pioneer, uno Yamaha…un Marantz.”…alla mia domanda, il giovinotto si gira sconcertato verso un tipo sulla sessantina e dice, a mezza bocca: “…Oh! senti un po’ che va cercando questo che io non ho proprio capito ?!”. Così mi si avvicina quello e, con la medesima espressione che usa la polizia di Miami quando bussa alla porta della moglie di quello appena ammazzato da minuti con una mitraglietta Uzi in mezzo alla strada mentre comprava il pane, mi dice, un po’ imbarazzato:

…guardi che sono cose difficili da trovare, sa…non usano più…”. Io lo guardo dritto negli occhi e gli chiedo se, mentre me ne ero andato a Milano il giorno prima, non avessero inventato un nuovo supporto in sostituzione del compact. Mi garantisce che, no, quelli esistono ancora, per ora, ma che pare non esistano più gli impianti stereofonici, quelli con amplificatore, sintonizzatore, un sano equalizzatore, un doppio lettore di cassette (…beh, quello me lo aspettavo, ma vaglielo a spiegare tu ai miei sette, ottomila nastri di concerti da vivo mai trasferiti su cd …), un piatto per i vinili, ed un bel tecnologico lettore di compact.

Così mi guardo intorno e metto a fuoco: televisori piatti come uno schermo da computer, mille tipi di quei cazzettini colorati che chiamano Ipod, una serie di minuscoli, ridotti, essenziali, inutili piccoli impianti dotati di casse che paiono scatole di sciroppo per la tosse. Quelli che cerca lei non esistono più da anni, mi spiega gentilmente, come si farebbe con il giapponese trovato nella giungla convinto di essere sempre in guerra ed alla mia domanda su come leggano gli attuali abitanti della Terra i loro cd, mi elenca due o tre possibilità: con il computer, con il lettore Blue Ray o Dvd, con quei minuscoli aggeggi (“…ma suonano bene, sa?”). Mi gira la testa. Possiedo, credo, quindici o ventimila di quegli orribili pezzetti di plastica tonda e d’un tratto non so di che farmene. Penso ai miei due piatti…ai giradischi, scusatemi…”Quindi se avessi bisogno di una nuova testina per il mio Thorens? Guardi che li vedo i dischi in vinile in vendita, eh?”. Mi consiglia internet. Dice che su E-Bay posso trovare di tutto, con un po’ di fortuna.

Mi pare di essere caduto in un buco spazio-temporale ed aver saltato un paio di secoli. Non mi sento bene, anzi, mi sento ancora peggio perché mi sono appena fatto il regalo di Natale ed ho una ventina tra cofanetti e cd sulla mia scrivania che non potrò mai più ascoltare sull’impianto. Impianto? E che è? Mi trascino fino all’auto, sperando che non smettano nel frattempo di produrre gasolio e mi siedo, affranto. Solo due giorni prima il tracollo della pila del mio computer portatile ne aveva causato il blocco. Recatomi dal rivenditore di fiducia, lo aveva guardato con un sorriso e aveva sentenziato : “Si tratta al novanta per cento di un crack della scheda madre, non ti conviene neppure metterci le mani, con quello che ti chiede la Asus per quel vecchio trabiccolo, te lo compri nuovo!”. Elenco un paio di sagaci e irriferibili esclamazioni locali e faccio notare che, cazzo porcellino, quel pc ha poco più di quattro anni!

Mi guardano in due, come se fossi arrivato dall’Uganda, in gommone. Non commentano. Torno a casa, sotto shock, non so se ascoltare il cd o la radio: se mi si rompe pure questo sono isolato dal mio mondo. La sera esco con i miei cinque sodali “dei bei vecchi tempi”; una pizza natalizia ben augurante. Mi spiegano che sono rimasto troppo isolato, che ho speranze di trovare una testina per il piatto solo sul web, ma che, con un po’ di fortuna, qualcosa di usato, ho speranze di recuperarlo e che, in una provincia limitrofa esiste ancora un tipo che…vende impianti stereo. Una provincia vicina?  Sì, mi confermano che oggi i cd vengono letti con il lettore dvd e che gli impianti stereo non esistono più, di fatto… “…Ma sul web trovi un po’ di tutto! Sperando che te lo consegnino e non sia una sòla…

Mi giro e li guardo, spaesato, e gli domando : “Ma questi cristi, quelli che hanno ancora la pazienza di ascoltarsi un disco tutto in fila, come fanno? Mi dite quindi che non esiste più l’alta fedeltà? Che tutto è ridotto a due cuffiette e alle casse prive di cuore dei computer?”. Fanno sì con la testa e incrociano gli sguardi. Pare che le case siano sempre più piccole, che non ci siano più spazi, che non importi più a nessuno, che non abbiano neppure idea di cosa sia il suono che esce da due JBL o due AR e che tutto costi troppo, che quei “cosini” in miniatura siano il massimo che ti puoi permettere. Mi invitano a digitare “impianto stereo” su Google e vedere che vien fuori…(ve lo dico io: si tratta di impianti da auto)…e mi dicono di avere pazienza e organizzarmi. Così passiamo a ragionare sui tempi e sui modi e conveniamo che, in fondo, se le attuali generazioni non scelgono più di gustare la differenza tra un Leslie ed un Hammond, se non importa più capire se la chitarra acustica sia a sei o dodici corde, se esplorare una sezione di fiati e apprezzare un sax o una tromba, se scoprire se il suono di una chitarra sia prodotto da un distorsore o da una fila di Marshall in parallelo…bene, la colpa forse non è poi più tutta e solamente loro.

A queste generazioni abbiamo tolto ogni possibilità di ascolto e approfondimento, progressivamente: i giornali, le radio, la televisione… poi lo stereo. Li abbiamo obbligati a passare dai monumentali quaranta minuti di eccellenza selezionata agli ottanta di disastro. Gli abbiamo scippato la musica intorno a loro e gli abbiamo dato, in cambio, la musica dentro le orecchie, quella che nessuna cuffietta potrà mai insegnare a distinguere da un suono massificato. La colpa è nostra che non abbiamo pensato a trovare soluzioni.  Parlavamo, in cinque, davanti a una pizza e ci siamo sentiti, per un attimo, dei coscritti. Fortunati, però.

Non ho figli e per un momento mi sono sentito sollevato. Avevo sempre sofferto pensando all’eredità dei miei ventimila vinili selezionati in una vita, ai miei cd, ai miei nastri destinati al nulla, ed ora mi consolavo, pensando che, tutto sommato, anche se avessi avuto un erede, non gli sarebbero serviti a niente.

Così sono tornato a casa, al mio desktop, ho iniziato a tentare timide ricerche nella speranza di incappare in un altro giapponese come me. E forse lo troverò, non ho più fretta. Ho riflettuto più sulle emozioni perdute che sui supporti disastrati ed ho pensato che se posso ancora trovare una vite della mia vecchia 2cv, probabilmente troverò anche quella testina e quel lettore. Prima o poi. E se così non fosse, prenderò un dvd. Chissenefrega. Ho chiuso gli occhi al buio, attaccato le mie cinque casse da pc – il minimo per farlo suonare lontanamente come un impianto mediocre – e dato vita a uno di quei minuscoli file compressi, scaricati dal web a scopo di puro intrattenimento, utili mentre si lavora alla tastiera. Ho pensato. Ho pensato a tanti bellissimi dischi che i natali dei miei anni “teen” mi portavano. Ho pensato ai dicembre di due o tre vite fa, quando liberare uno scaffale della libreria che i miei avevano piazzato in camera mia significava prepararla agli album che l’anno avrebbe portato, ma che, sopra ogni cosa, il Natale avrebbe riempito.

Ho rivissuto quelle banconote enormi da diecimila lire che significavano tre o quattro 33 giri, ho ricordato quei bigliettini minuscoli che nascondevo dentro al portafogli e che erano sempre pronti a ricordarmi i dischi che non-potevo-mancare-di-comprare. Ho ricordato, con rimpianto, il rituale che accompagnava l’ascolto di ogni disco… la copertina letta in ogni nota, osservata, non guardata, il vinile estratto manovrandolo con la punta dei polpastrelli, puliti, e solo sul taglio del disco. Eravamo come dei moderni pizzaioli in gara: li manovravamo con una maestria che sconfinava nella devozione. Poi appoggiavamo con attenzione la puntina, appena pulita e controllata, ma non prima di aver passato un goccio di Parastat sul disco. Ci sedevamo davanti alle casse e guai a chi entrava nei venti minuti successivi. Un ascolto serviva solo a entrare in atmosfera. Mille ne sarebbero serviti per memorizzare il grosso ed altrettanti dopo averne parlato con gli altri, aggiungendo le note di ognuno alle nostre. Raramente il primo ascolto avveniva in gruppo. Il disco era un rito da vivere da soli, almeno la prima volta. L’amore di gruppo sopraggiungeva solo quando diventava un rito da voler condividere. Ho ricordato tutto questo non per squallida nostalgia, ma per confrontarla al rituale odierno, alla sequenza che guida oggi le medesime persone al medesimo fine.

Non c’è confronto. Come mangiare una pizza al taglio o degustare un branzino alle mandorle da Paracucchi. Ed ho pensato ai tanti infruttuosi tentativi fatti con le figlie di Barbara o i miei nipoti, sperando di riuscire a toccare la corda giusta e emozionarli con brani e note che mi avevano avvolto e protetto per decenni. Tutti miseramente falliti. Ho pensato ai momenti di sconforto davanti al muro dei miei dischi, pensandoli tutti orfani di amore e affetto quando io non fossi più stato lì, a coccolarli. Mi sono ricordato che era Natale, quel momento emozionante in cui il fogliettino consumato veniva riempito di cancellature, che significavano pezzi acquisiti, messi in teca. Ed ho pensato che forse esiste ancora qualcuno che prova ancora oggi le stesse emozioni, con i suoi cd. E mi è venuto in mente di provare a dargli qualche nome da aggiungere al suo fogliettino, sperando che gli venga la voglia di andarselo a cercare e magari ascoltarselo pensando che sì, è roba d’altri tempi, ma che possiede ancora tutto il sapore di una musica che non si ascolta più in giro. Che non si ascolterà mai più in giro.

Così ho pensato che da ragazzo adoravo i dischi dal vivo, un po’ perché c’era una voglia incredibile di immaginarsi davanti ai propri sogni, ed un po’ perché dal vivo tutto appariva più dilatato, più potente, più emozionante. Più vero. I pezzi non finivano sfumati ma venivano aggrediti da urla e pareva di essere lì, sentivi parlare i tuoi sogni e anche se non eri ancora in grado di afferrarne l’accento, ti pareva che quella manciata di parole fosse anche per te. E lo era, sicuramente. E poi i colori, le luci immaginate, le folle tagliate dai laser colorati o evidenziate dagli spot bianchi. Tutto faceva parte del rito, di un rito cui potevi accedere comprando un pezzo di vinile; e da quel momento anche tu eri stato lì. Erano i tuoi quaranta minuti scarsi di Storia, giusto una fettina di quello cui non avevi potuto assistere, ma te li facevi bastare.

E quando il live era doppio… beh, allora ti pareva davvero di portarti a casa tutto il peso di uno spettacolo. I dischi in studio ti portavano in volo, ma erano quelli dal vivo che ti aprivano le porte del paradiso. Così mi sono girato su me stesso, a 360 gradi, ho quasi chiuso gli occhi ed ho scelto sfiorando le zone degli scaffali dove sapevo avrei trovato una perla. Un po’ di hard rock, un blues elettrico, una cascata di riff, un classico dimenticato, una boccata di psichedelia, un pezzo che è impossibile non avere, qualcosa che nessuno andrà mai a ricercare perché troppo difficile… mi sono coccolato i miei dischi ancora una volta. Li ho tirati fuori dalle loro custodie in plastica trasparente, ho sfilato il vinile dalla busta bianca cellofanata. Li ho guardati in controluce. Ho sentito il profumo del piacere di rivivere un tempo andato che la nuova e recente passione per il vinile non riporterà comunque mai indietro. Un po’ come passeggiare nella tua Città rivedendola quando eri bambino e scoprirla totalmente differente. Poi mi sono reso conto che quasi di ognuno dei miei “bambini” avevo anche la versione in cd, acquistato non senza sforzo per evitare di deteriorare una cosa che rischio non poter mai più utilizzare.

Ed ho deciso di portarli in auto con me. E di elencarveli. Perché sarei felice che qualcuno di voi se li andasse a cercare nella nuova veste compatta e li assaporasse con lo stesso piacere che ho avuto io tanti, troppi, anni fa. E questo anche se andarseli a cercare significasse solo ricordare che li avevate pure voi, messi in fila da qualche parte nella vostra stanza, un tempo. Non una logica, non una sequenza cronologica, ma due, tre per volta, con il solo gusto di saccheggiare i vari settori in cui ho diviso, chissà quando, i miei scaffali…

E così, mentre mi portavo via in macchina i corrispondenti piccoli pezzi di plastica luccicante, pieni di vecchie meraviglie, pensavo che sarebbe stato bello che qualcuno fosse stato stimolato dall’idea di (ri)scoprire qualcosa di quello che il caso aveva deciso di farmi riportare alla memoria… Settore rock blues inglese… il live dei Free di Paul Rodgers e Paul Kossoff, un gruppo dotato di un gusto unico nel fondere rock, blues e melodia, con un chitarrista espressivo e per una volta non strabocchevole come tanti, un altro che scelse di morire a ventisei anni per pura idiozia. Il disco di Rodgers, una delle più ispirate voci dei settanta… classici indimenticabili come “The Hunter”, “Mr Big”, “Ride on a pony”, “Be my friend” e “All right now”, l’epitaffio che venne scritto sulla tomba di Kossoff, come a indicare che, finalmente, Paul aveva trovato La Pace.

Poi quel doppio nero, quello con il disegno dell’ingresso del Madison Square Garden, la colonna sonora di quel film che ricordo andai a vedere al cinema restandoci per due proiezioni di fila, sognando per anni Robert Plant che urlava “New York… goodnight!” e pensando che doveva essere la soddisfazione di una vita dare la buonanotte a una città come New York dopo averla investita con un incredibile medley di “Whole Lotta Love”, quello del riff dei riff, il pezzo che non puoi dimenticare dopo averlo ascoltato anche una sola volta. E ho benedetto, per una volta, quei pezzetti di plastica che hanno permesso di inserire ben cinque pezzi inediti in più rispetto al mio vecchio disco doppio. Quante volte avevo sbavato sui 27 minuti di “Dazed and Confused”, adesso divenuti, magicamente quasi trenta… a fianco degli Zeppelin, una sbiadita copia dorata di un doppio che mi fece tremare le vene, a suo tempo: quel “Made in Japan” che ci hanno propinato in ventimila salse, diecimila edizioni, ma che ci fa sempre pensare, a volume giusto, che gruppi che suonano così non ce ne stanno più, in giro. E che i Deep Purple originali non li dimenticheremo mai… e poi ancora, stesso settore, quell’orribile singolo dal suono tremendo, scadente e infame, ma che mi ha sempre ricordato la prima volta con Ozzy e Toni e Geezer e Bill, a Bologna, anni Settanta, con la torre destra dell’amplificazione che saltava per mezzo concerto, ma chissenefregava tanto io stavo sulla sinistra… erano i Black Sabbath là sopra, gli Dei dell’oscuro e degli Inferi. I progenitori di un suono troppe volte copiato male e senza fantasia.

Due palmi più a sinistra, un paio di colpi al cuore: quell’altro live giapponese di quel Rob sempre un po’ troppo macho per esserlo poi sul serio ma con una voce da schiantare i vetri di casa, con quelle due chitarre così taglienti che mi hanno sempre fatto pensare che senza di loro l’heavy rock non sarebbe mai nato. E sa Iddio se sarebbe stato meglio o peggio… eppoi i Judas Priest che interpretano Joan Baez e i Fleetwood Mac senza sembrare ridicoli… no, no questo va riascoltato. Per forza… Oh, guarda… Sua Maestà il rock and roll… ”Se volevi il sangue l’hai avuto”… Ossssignore… quante orecchie ho fatto fischiare ascoltando quel gioiellino. Le più belle ginocchia del rock, gli AC/DC di Angus rincorsi fino a Berna, nel 1980 con la cassettina proprio di quel disco nello stereo della Dyane… e lì…oddio… un anno prima, Circus Krone, Monaco, il Reverendo Atrocius Theodosius, l’uomo della Gibson semi-acustica e i ventidue amplificatori Marshall collegati in parallelo… il cacciatore di cervi che a una domanda ambigua circa il volume che usciva dai suoi amplificatori e che avrebbe potuto “coprire” certe pecche esecutive, si era voltato verso l’incauto interlocutore e gli aveva porto la chitarra, come se fosse stata un piatto di portata… ”prova tu, se vuoi… io ti ascolto”… no, personaggi come Ted Nugent non ne nascono più, sul serio.

E poi quel singolo, maledetto per decenni per non essere mai divenuto un cd pieno, meglio se doppio di quell’altro meraviglioso solista, l’uomo deriso un tempo da quelli furbi di Ciao 2001 per i suoi 35.000 watt di potenza degli amplificatori, un numero che adesso fa sorridere… l’unico uomo che abbia mai davvero saputo utilizzare il feedback e la melodia al servizio di canzoni senza tempo, da ascoltare facendo esplodere le casse acustiche di qualsiasi stereo. Sì, Robin Trower è stato ed è tutt’ora l’interprete più credibile della lezione di Hendrix, ma che solo lui ha saputo rendere così assolutamente personale e distante dal Maestro da farla tutta sua.

Con Rory sono sempre stato in dubbio…se riprendere quel capolavoro assoluto di Live in Europe e tornare a commuovermi con Messin’ with the kid, Laundromat, o assaporare il fascino e la incredibile bellezza di Irish Tour e della sua A Million Miles Away… o scegliere di alzare il volume e ricordarmi ancora una volta di quelle due ore trascorse a ascoltare Rory Gallagher parlare di blues, di rock, di musica, di amici scomparsi e perduti, bevendosi – lui – due bottiglie di Four Roses, l’assassino che lo ha ucciso troppo presto. Lui, l’unico vero ed onesto rocker che sia mai uscito dall’Irlanda e dal resto del Regno Unito, un uomo sincero e cristallino, perché purtroppo sono sempre i migliori che se ne vanno presto, perché Cari Agli Dei… e allora sarebbe forse quello Stage Struck a aggredire i miei sentimenti ! Ma prendiamo tutti e tre, e crepi l’avarizia e la mancanza di spazi in auto…

Spazio che pare mancare, come un budget che a questo punto si starebbe facendo non secondario per uno che decidesse di darmi retta…Così mi scelgo il più bel disco di rock and roll della più grande band di rock and roll del mondo… quel Get your Ya-ya’s out! dei Rolling Stones, bellissimo, affascinante e credibile, con Mick Jagger che oltre quarant’anni fa insegnava a tutti come muoversi su un palco e piacere a maschietti e femminucce. Un disco che ogni appassionato degli Aerosmith dovrebbe avere per capire che c’è stata vita prima di Tyler. E dopo.  Dato che Love You Live sarebbe un’altra cosuccia da mettersi un casa, specialmente quell’ultima facciata del doppio vinile, quella registrata in quel clubbino canadese, El Mocambo, troppo piccolo per contenere quelle emozioni, e poi… la copertina di Andy Warhol… Ommioddio… e che altro?

E poi Happy Trails. Che meraviglia! Uno degli album che, ricordo, non entrava sul lato di una cassettina da 90 minuti perché… troppo lungo… ed il blues psichedelico, dilatato oltre ogni limite, stravolto e violentato dalle due bellissime chitarre dei Quicksilver Messenger Service. Solo il nome, per me, era un piacere da ricordare.

Esiste vita oltre il rock e il blues e il volume? C’è speranza di sopravvivenza senza una chitarra? Mi ricordo di una fidanzata solo perché lei, nel mio diciottesimo compleanno, non sapendo cosa regalarmi, mise insieme la bellezza, per l’epoca, di 10.500 lire per donarmi un triplo dalla copertina blu elettrico, con tre lettere cubitali : E, L e P. Il monumento al gruppo più complesso e semplice di tutti i tempi, l’obelisco della tecnica e della luminosa genialità di un trio che è stato, forse, responsabile per aver causato la crisi del Punk rock, sconvolto dalla mancanza di tecnica sufficiente per stare dietro a una tendenza musicale così bella da non annoiare a distanza di… due vite? Era quel titolo lunghissimo Welcome Back My Friends To The Show That Never Ends… Ladies And Gentlemen: Emerson, Lake & Palmer che odiavo: non sarebbe mai entrato in alcuna copia su cassetta. Ma chi se ne curava? La ragazza durò l’arco di un’estate, quel disco lo possiedo ancora. E’ tutto il ricordo che ho di lei e impreziosito dal coraggio, che raramente ho trovato, di farmelo firmare da tutti e tre. Chiedendolo ad un amico, però!

Un altro tosto… me ne serve un altro… così vado a raccattare Speak of the Devil, perché, sì, Randy Rhoads… ma a me quel velocissimo passaggio di Brad Gillis tra le ali di Ozzy ha sempre affascinato da morire! Molto di più devo ammettere. E poi… un altro ancora… massì… Live dei Roxy Music, di quelli veri, anni ’70, quelli dadaisti, fichissimi, con Ferry ancora un mito e Eddie Jobson con il suo violino…

Ed uno Zappa, devo prendere uno Zappa. Non posso digerire tutta la semplicità del rock senza alternarlo con il Genio. Ma ho poco spazio, così, tra i milioni di note, scelgo quel Roxy & Elsewhere, quello degli incredibili cambiamenti di tempo di Echidna’s Arf (of you), delle due batterie a rincorrersi, del lunghissimo solo di More Trouble Every Day e del  Be Bop Tango la vera prova di resistenza e di decodificazione di mille generi, sorpassata la quale tutto è possibile comprendere. E con le Sue parole all’inizio…”occhio ragazzi a non partire troppo veloci…abbiamo una possibilità sola e voglio registrare correttamente tutto…” . E questo, detto a una band che poteva suonare duecento pezzi blindfolded, a occhi chiusi….mi ha sempre affascinato.

Ecco. Sono pronto. Me ne torno in auto; li piazzo nella cassettina in plastica colorata che porto dietro, insieme alla cuccia di Ike, il mio vecchio compagno di viaggio. Con un occhio a non farsi graffiare l’uno con l’altro. Lo so, ce ne sarebbero troppi da andare a recuperare in mezzo a quei ventimila e non tutti così noti e così facili da recuperare. C’è di più nuovo e di più ignoto. Ma mentre carico il mio cd, rifletto e mi chiedo, sapendone già la risposta, perché, in fondo, siano sempre alcuni a galleggiare più facilmente nella memoria, perché siano proprio quelli a venire subito in mente prima ancora di portarne alla luce altri. Forse perché vedere le fonti di un fiume è più spesso emozionante che seguire lo scorrere del letto, molto più a valle. E guardando l’acqua uscire dalla roccia ci si domanda sempre… da dove cavolo venga… così limpida e fresca.

Provateci, divertitevi, assaporateli. Ma siate bravi. Ditemelo, se volete. E buon anno, che sia pieno di buone note e belle emozioni, anche se in ritardo.

 

GIANCARLO TROMBETTI

Articolo a cura di Stefano “Steven Rich” Ricetti