Heavy

Beppe Riva Pillars: recensione IRON MAIDEN (Iron Maiden)

Di Stefano Ricetti - 11 Giugno 2010 - 0:10
Beppe Riva Pillars: recensione IRON MAIDEN (Iron Maiden)

IRON MAIDEN
“Iron Maiden”
1980
EMI

iron maiden 1980

 

 

Recensione tratta dalla rivista Rockerilla numero 6, del luglio 1980.

FANTASIE ECCITATE FRA LE NEBBIE DELL’HARD

 

Un effetto notevole conseguente all’ultimo corso dell’heavy metal anglosassone consiste nella riproposizione di tematiche perniciose e raccapriccianti, verosimilmente attinte dai libri ingialliti del dark sound di decennale memoria. Gli hard rockers americani dei mid-seventies, figli del continente “nuovo” ed in una certa misura più legati all’estrazione urbana del loro suono, avevano prevalentemente accantonato il versante “oscuro” di questo genere musicale. Gli inglesi invece, morbosamente avvinti dal mito di leggende gotiche intimamente radicate nelle tradizioni della loro terra, non hanno mai perso la “fede”. La prova? Judas Priest, che da anni persegue una strada ricca di labirinti ombrosi e diramazioni ignote, fino a all’ultimo LP ‘British Steel’, ancora in grado di sprigionare esalazioni venefiche dalla scorza impenetrabile del metallo pesante.

Attraverso la “muta” HM 1980, il fenomeno acquista proporzioni sempre più consistenti, con i Def Leppard a cantare cataclismi irreparabili in “When The Walls….” e con i Quartz che fomentano un sabba “live” evocando il Conte Dracula. Che il Signore delle tenebre sia il principale ispiratore delle attuali orde hard? La conferma parrebbe venire dall’opera prima degli Iron Maiden (qui loro intervista del 1980) , su cui cala una cappa iconografica da tregenda, sospinta da una cover graficamente desunta dalla più materiale tradizione fumettistico-orrorifica. Iron Maiden potevano già vantare il più occulto, spigoloso episodio dell’heavy di questi chiari di luna (“Running Free”, naturalmente), ma l’LP focalizza appieno i contorni di una musica che oltrepassa l’alone di hard minimale emanato dal debut-single, per definire un’orditura capace di abbracciare situazioni più estemporanee e di qualificare la band come un’entità imprescindibile dell’odierna scena britannica. “Iron Maiden” è a mio avviso il terzo monumento” alla rinascita hard d’Oltremanica, seguendo in ordine temporale, “Sheer Greed” (Girl), e “On Through the Night” (Def Leppard).

Non sono solito disquisire sulla bontà tecnica dei musicisti, e lascio volentieri ad altri questa incombenza (troppo penosa impressione mi destò a suo tempo la contessa Emerson-Wakeman, promossa dall’intrepida testata che tutti conosciamo), ma è pur certo che l’argomento di shock di questo LP risiede nella mostruosa abilità dei chitarristi Dennis Stratton e Dave Murray, sorprendente in strumentisti di così limitata esperienza. Potrebbero i due bravi, senza il completo controllo dei propri mezzi tecnico-espressivi, infondere in un brano come “Phantom of the Opera” la magia primitiva del crepitare incessante di chitarre duellanti al parossismo? Certamente no, ed ecco dunque come la competenza strumentale si dimostra fondamentale supporto di un’aggressività lancinante, primaria, heavy metal.

Inoltre lo stile dei solisti nello spronare il ritmo è unico: una coppia di Steve Howe-hard in quanto a perizia funambolica, ma tesi ad incentivare fraseggi enormemente più incisivi. Degna di menzione è anche la voce di Paul Di’Anno, che si esprime a tratti con la foga urgente di un “autentico” cantante punk, e cavernose, onnipresenti, sono le tonalità del basso di Steve Harris, il principale artefice delle composizioni di Iron Maiden. Chi ravvisa presunte carenze d’originalità nell’HM wave, si limiti a rilucidare i suoi feticci: talvolta è più difficile districarsi dal marasma asfissiante di un genere ben identificato che non confezionare proposte che si estraneino in qualche modo dal “già sentito”.

Si consideri l’alternarsi di ambientazioni dei momenti costitutivi di “Iron Maiden”: “Prowler”, uno dei più acclamati “live numbers” della band, ed “Iron Maiden” emergono da uno stridente pandemonio di riffs blindati, scalfiti dalle raffiche smisurate delle chitarre; l’incomparabile “Running Free” riproduce fedelmente l’ipnosi da violenza antidiluviana che gli si conosceva, e “Transylvania” è una sfrenata danza zingaresca, un balletto fra lame affilate con rimembranze di folklore mitteleuropeo. Privo di controindicazioni anche “Strange World”, uno slow ottenebrato da una cortina nebulosa, frutto di un’immaginazione malsana. Ma la dimostrazione più ambiziosa è “Remember Tomorrow”, che esplora le funeree vestigia dei “Realms of Death”, efferata opera del becchino Judas Priest. Quello degli Iron Maiden è a sua volta un corposo intarsio, cinicamente concepito per inoculare, in un contrasto sinistro d’atmosfere, il morbo incurabile del fantastico spettrale. Le memorie macabre della “città antica” sono manifestamente presenti nel primo capitolo della storia di Iron Maiden, un gruppo che può conservarsi a lungo nocivo, se saprà resistere alla tentazione di trasformarsi in una contagiosa illusione di massa.

BEPPE RIVA (qui la Sua intervista)

Articolo a cura di Stefano “Steven Rich” Ricetti