Live Report: Transatlantic a Milano

Di Francesco Sorricaro - 20 Maggio 2010 - 3:19
Live Report: Transatlantic a Milano

Lunedì 17 maggio 2010. Alcatraz, Milano

Un’attesa durata circa dieci anni per i fan della super progressive band formata da membri di Dream Theater, Marillion, Flower Kings e dall’ex Spock’s Beard Neal Morse: questo il tempo necessario affinchè si potessero rivedere sulle scene i Transatlantic. Fu proprio il prolifico musicista californiano, nel 2002, a porre un termine alla parabola del gruppo dopo soli due album, per poter così dare libero sfogo alla sua svolta religiosa nel suo progetto solista e con un’intensa attività live. Il 2009 è stato l’anno dell’improvviso ripensamento e della pubblicazione di The Whirlwind: il mastodontico disco composto da un’unica suite di circa 78 minuti la quale sarà il piatto forte anche della tappa milanese del tour mondiale dei quattro, che vedrà anche, come special guest di lusso, la partecipazione del singer e mastermind dei Pain of Salvation Daniel Gildenlow.

 

Foto e report a cura di Francesco Sorricaro

 

Sembra talmente lontano quel piovosissimo 20 novembre del 2001, quando un Palaquatica tristemente semivuoto accoglieva i Transatlantic freschi autori di Bridge Across Forever. Oggi il palcoscenico destinato ad ospitarli è quello dell’Alcatraz di via Valtellina e l’atmosfera è del tutto diversa. Siamo in maggio ed il tiepido sole primaverile delle quattro del pomeriggio scalda già un nutrito capannello di appassionati che, col passare delle ore si comporranno in una crescente e lunga fila ordinata, che riempirà l’intero marciapiede dinanzi all’entrata. Al termine delle operazioni d’ingresso, sul vetro della biglietteria verrà affisso un foglio con su scritto: “biglietti esauriti”. Probabilmente i tanti anni trascorsi, utili per meglio assimilare ed apprezzare la complessa musica del quartetto, oltre all’innegabile incremento del successo dei Dream Theater o dello stesso Neal Morse in questo ultimo periodo, hanno creato delle ottime condizioni di base per questo ritorno in grande stile.

All’interno, la sala è gremita di spettatori di ogni età e tipologia: qualche T-shirt del Teatro, dei Flower Kings ma l’impressione, anche origliando qua è là di tanto in tanto, è che si tratti per la maggior parte di un pubblico di veri appassionati di musica progressive venuti a godersi un’esibizione che, considerando i protagonisti in gioco, promette grandi emozioni.

Lo show inizia in maniera abbastanza puntuale, come da copione, con l’Overture di The Whirlwind. I cinque eseguiranno, tutta d’un fiato, l’intera suite in 12 movimenti che compone il disco. BIsogna dire che la carica iniziale non è delle migliori; soprattutto Neal Morse appare un po’ spaesato dal principio e la dinamicità del complesso viene sorretta, per fortuna, solo dal poderoso motore ritmico alimentato da Mike Portnoy e Pete Trewavas. Del resto è risaputo che il suo carisma sul palco sia sempre stato inversamente proporzionale alle sue enormi doti compositive; ad ogni modo, col tempo, la crescente empatia col pubblico fa sì che le cose pian piano migliorino, anche se il tastierista e voce principale del gruppo non appare proprio in giornata di grazia. Numerose sbavature contraddistinguono da subito la sua prova, nonostante la sua voglia di far bene (e a volte di strafare) traspaia comunque dalle sue smorfie. Musicalmente la band gode di grande affiatamento e l’innesto di Gildenlow consente di tappare egregiamente le pur rare falle che si creano nel corso di una setlist così lunga. Lo svedese è una vera e propria piovra tuttofare su quel palco: circondato da tamburelli e percussioni di vario genere, chitarre, tastiera e un Mac, si destreggia meglio di Edoardo Bennato ed arricchisce oltretutto i brani con le sue backing vocals e con un’energia contagiosa che coinvolge spesso il folletto Trewavas accanto a lui.


                               

The Whirlwind è un album molto organico e ricco di emozionalità differenti ma dal vivo, almeno per quanto mi riguarda è risultato estenuante a tratti. I momenti maggiormente evocativi dell’opera, infatti, su un palcoscenico meriterebbero un’interpretazione maggiormente caratterizzata, alla Geoff Tate per intenderci, mentre il povero Neal Morse, che si danna dietro le sue tastiere, si limita ad indicare spesso il cielo con la mano destra sortendo quasi l’effetto opposto. Ma questa è solo un’opinione personale.

Highlight di questa prima parte dell’esibizione sono risultati certamente l’anthemica Whirlwind, l’elegante Rose Colored Glasses, la ritmata Evermore e la coinvolgente Lay Down Your Life. Alla conclusione della colossale performance i cinque rientrano dietro le quinte per 15 minuti di sosta meritata promettendo tantissima altra musica al loro ritorno.

La seconda parte dello show è tutta incentrata sui cavalli di battaglia dei loro precedenti lavori: brani per nulla da ridere se si và a vedere la durata media di ognuno. L’inizio è affidato, per esempio, a All of the Above: un brano lungo sì, ma ricco di mordente, ed arricchito per giunta da improvvisazioni e vari divertissement.

Si nota subito il diverso piglio con cui tutto il gruppo affronta il vecchio repertorio. La probabile tensione dovuta alla difficile esecuzione precedente, unita comunque al fatto di non essere un gruppo abituato da anni a suonare insieme di continuo, lascia spazio ora improvvisamente a volti distesi e voglia di divertirsi. Lo stesso Neal Morse senbra aver ritrovato una maggiore verve, mentre il saltellante Trewawas e Portnoy continuano a fare i fenomeni da circo con i loro strumenti.

We all need some light è la ballata che scatena l’emozione di un pubblico che sembra non aspettare che il momento del ritornello per cantare a squarciagola. E’ anche il modo per prendere fiato prima di un altro super pezzo come Duel with the Devil che scatena ancora di più gli animi generali, anche grazie a giochi di prestigio come una spruzzata di Highway Star gettata lì all’improvviso. Oramai l’atmosfera si è fatta calda, i musicisti se la spassano ed il pubblico tributa applausi convinti quando vanno di nuovo nel backstage al termine del brano.


                                

L’encore è affidato ad un sofisticato duetto tra le anime più intimiste dei Transatlantic e cioè Morse ed il timido Roine Stolt, autori di un momento di rara emozionalità con Bridge Across Forever. Si chiudono le danze con una rumorosa e pazzoide Stranger in Your Soul. A questo punto salta ogni freno inibitore: Daniel Gildenlow sale sul palco con la maglia dell’Inter appena laureatasi Campione d’Italia (per la cronaca: i Transatlantic sono arrivati a Milano giusto nel pieno dei festeggiamenti della sera prima), Portnoy con la tuta del Progetto Dharma (i fan di Lost capiranno….) ed il pezzo scorre tra continui scherzi e momenti di ilarità, segno che a questo punto la band è davvero su di giri. Ad un certo punto Morse, Trewavas e Portnoy si scambiano gli strumenti, non prima che il batterista si sia improvvisato stagediver per ben due volte. Con il piccolo Inglese alle tastiere e gli Americani a comporre un’inedita sessione ritmica giunge anche l’ora di dare il giusto tributo al tristemente scomparso Ronnie James Dio, con l’accenno affettuoso, anche se sempre in stile goliardicamente improvvisato, di Heaven and Hell ed Holy Diver, canticchiate alla buona, rispettivamente, da Portnoy e da Gildenlow. Mike a questo punto torna dietro le pelli e, prima di giungere alla conclusione del brano iniziato da tempo immemorabile, schernisce amabilmente il credentissimo Neal con una scarica di voce e batteria a la Vomitory, tanto per farsi un’idea, nel buonumore generale e nell’incredulità di un’audience divertita e, per alcuni casi, scioccata.

Il concerto giunge al termine all’incirca alle 23.45, dopo ben 3.30 dal suo inizio. Il consenso è palpabile e la band, nonostante qualche errore grossolano lungo il percorso si è dimostrata capace di intrattenere al meglio sia con la propria innegabile tecnica e senso dell’improvvisazione, sia con la semplicità nel prendersi in giro: elemento, quest’ultimo, che ha reso una serata già ricca di contenuti artistici, anche molto divertente. Peccato per la voce non al meglio di Neal Morse, il quale ha comunque il merito di non averla voluta risparmiare fino al finale dell’ultimo pezzo, nel quale le ha dovuto definitivamente dire addio. Certo è che, l’unica volta in cui Gildenlow ha avuto l’opportunità di cantare direttamente un verso di Duel with the Devil, con tanto di acuto, è stato quasi imbarazzante il confronto della serata.

Buona la seconda, dunque, per i Transatlantic, sperando di non dover aspettare altri dieci anni….!!!

Francesco ‘Darkshine’ Sorricaro

 

Setlist
The Whirlwind
All of the above
We all need some light
Duel with the Devil
Bridge across forever
Stranger in your soul