Heavy

TrueMetalStories: Tank, dal punk al metal con pochi, letali riff

Di Eric Nicodemo - 14 Luglio 2017 - 9:41
TrueMetalStories: Tank, dal punk al metal con pochi, letali riff

TrueMetalStories: la rubrica in cui presentiamo band giovani e pronte a sfondare, o band di lungo corso che ancora non hanno ricevuto il successo che meritano.

 

tank logo

 

 

Non c’è scampo: quando hai una nomea è ardua impresa togliertela. E’ come un marchio impresso a fuoco, difficile da far svanire senza grossi sacrifici. Prendiamo, per esempio, una situazione scolastica: se la tua media è sette, quando farai un compito da otto il tuo voto sarà quasi sempre inferiore al reale rendimento. Una semplice ma semi-infallibile regola, applicabile in molti casi anche ai vincenti: hai totalizzato di solito votazioni cospicue da nove? Beh, quando dovresti meritarti un voto inferiore riceverai sempre un plauso al di sopra di quanto hai effettivamente riscosso. Insomma, una meritocrazia “esatta” al mondo non esiste.

Così i Tank, in origine formati da Algy Ward, Peter e Mark Brabbs, dovranno portarsi il nomignolo di Motörhead on speed” fino alla fine dei loro giorni. Classificazioni giornalistiche che, se all’inizio fanno piacere, con il tempo possono dare risultati non lusinghieri, producendo la tipica sensazione di “gruppo derivativo”.

Insomma, al Carro Armato britannico non sono mai stati riconosciuti i propri meriti, vuoi perché è stato avvicinato pericolosamente a Lemmy e soci, vuoi perché la loro proposta potente, diretta ma onesta, ha dato alla luce dischi che mancavano di quel guizzo mainstream o di quell’impeto da stadio anthem degli altri contendenti. Il fatto, poi, di definire l’esordio come summa discografica, ha penalizzato le quotazioni di Algy e soci, facendoli poi piombare nel baratro dello scioglimento e… alt!

Procediamo con ordine e riavvolgiamo il nastro per risalire fino ai gloriosi anni Settanta: ci troviamo nei meandri anneriti di Londra, sconquassata dalle pulsioni (psico-fisiche e sonore) di una generazione, quella punk, che voleva ribellarsi ai conformismi della società borghese, pensando di spezzare il giogo del comando (dopotutto in maniera non dissimile dalle allucinazioni hippie).

In questo marasma, Alasdair Mackie “Algy” Ward, un giovane bassista nativo di Croydon, popolosa cittadina a sud-est di Londra, faceva le sue prime esperienze musicali nel circuito punk, prima, con gli australiani The Saints, poi, con gli influenti The Damned.

 

damned 223

Un mastino del rock al servizio del punk. Come testimonia il binomio “denim and leather”, l’attitudine fottutamente heavy’n’roll del nostro Algy era già in nuce!

 

Come la storia insegna, il tornado millantatore del punk non durò molto, grazie anche alle etichette discografiche, le vere vincitrici, che seppero imbrigliare e sfruttare commercialmente lo stesso movimento che si professava nemico del business (buffo ma vero!). Quando il rock tornò a ruggire, Algy unì intenti e forze con Peter (chitarra) e Mark Brabbs (batteria), “fratellini” reduci di Father Luke e Heroes, gruppi rock di oscura fama. Le idee alla base del nuovo combo erano poche ma chiare: creare un gruppo che coniugasse l’istinto animalesco del punk con l’adrenalina della nuova ondata, conservando nel proprio DNA gli istrionismi del rock’n’roll.

E il nome del complesso doveva riassumere in modo semplice il concetto di questa musica viscerale e vigorosa, senza finezze intellettuali a frenare l’assalto del trio: ecco spiegato perché la scelta ricadde su Tank, nome tanto semplice quanto inequivocabile.

 

Tank prima formazione

In assetto di guerra. La prima, storica line-up (da sinistra a destra): Algy Ward, Mark Brabbs e Peter Brabbs.

 

 

Chi ben comincia…

 

Facendo proprio questo originalissimo detto, i Panzer UK si appoggiarono ai membri e ai manager dei Motorhead per esordire sulla breve distanza: il debutto sul palco avvenne in compagnia delle Girlschool e sotto l’egida della Kamaflage (tanto per rimanere in tema militaresco) venne sparato il primo singolo. Quale miglior pezzo d’artiglieria se non usare il trittico “Don’t Walk Away”/“Hammer On”/”Shellshock” come biglietto da visita: questo non era il solito boogie metal o l’ennesimo plettraggio compulsivo ma un fuoco di sbarramento rilasciato dalla sei corde di Peter, dal pestaggio di Mark e dalla voce da mastino schiumante di Algy.

Il punk si avvinghiava allo spirito hard’n’roll, entrambi stretti nella morsa d’acciaio delle ritmiche heavy metal.

D’altronde, per quanto i Tank fossero ricondotti al filone della nuova ondata britannica, Ward era sempre stato poco incline alle catalogazioni, ribadendo la sua indipendenza alle mode con parole pesanti… fino a mandare a quel paese alcuni nomi importanti del movimento!

Un attacco non fine a se stesso ma piuttosto la voglia di esprimere la propria libertà di suonare senza le briglie dei generi, componendo ciò che più sentiva e gradiva senza pressioni commerciali (che è poi il concetto che dovrebbe stare a base della musica stessa).

 

Non sono mai stato un punk, non sono un metallaro: sono uno che ascolta quello che vuole. E sono uno che ha attitudine”. Algy Ward

 

 

First Strike

 

Filth Hounds Of Hades cover

 

 

La reazione chimica tra correnti musicali innescata nei Tank diede nuova linfa vitale al crossover, generando quel groove bastardo che altre band della NWOBHM avevano solo abbozzato: gli ascoltatori percepirono il genio, la forza di questa l’alchimia finalmente compiuta e riuscita, e risposero con entusiasmo alla chiamata.

La miccia era stata accesa ed ora veniva il momento di scatenare tutto l’arsenale nella guisa di “Filth Hounds Of Hades”, debut album del 1982 prodotto da “Fast” Eddie Clarke dei Motörhead. Fin dalla copertina, grezza ma enfatica, si chiariva la forza abrasiva del trio: tre lupi, tre musicisti, erigevano una colata lavica di riff mai troppo sciatti che mantenevano una certa primitiva melodia degna di un vero proprio inno guerresco.

Dopotutto, l’intro tribale di “Shellshock” esemplificava il concetto e il grido di Algy risuonava come una dichiarazione di guerra mentre basso e chitarra aprivano le ostilità.

Se “Heavy Artillery” sfoderava epicità heavy metal nel suo fiammeggiante assolo, il gusto della forma canzone non veniva smarrito e trovava il suo apice nelle vesti di “(He Fell In Love With A) Stormtrooper”, che, con il suo coro euforico e un pizzico di humor guascone, alleggeriva l’atmosfera senza perdere nerbo.

Altre cartucce clamorose erano “Turn Your Head Around”, simulacro dell’headbanging, e “Blood, Guts And Beer”, percorsa dai fremiti senza pace di Mark (la cui formazione rock blues è qui evidente e incontestabile).

 

 

The Metal World Is Yours

 

Come molte storie di questa rubrica, anche la carriera dei Tank ebbe il suo momento di lustro che coincise con una prova all’immancabile “Friday Rock Show” del 1982 (programmi che noi italiani potevamo e possiamo solo sognarceli nella nostra palude mediatica). Strumenti (armi) in pugno, il trio sfogò la propria potenza di fuoco su uno stuolo di entusiasti ascoltatori, che assaggiarono il piombo di “(He Fell In Love With A) Stormtrooper”, “Heavy Artillery”, “Hammer On” e “Don’t Walk Away”.

 

 

Quando “battere il ferro finché è caldo” diventa un’esigenza fisiologica…

 

Tank Power of the Hunter cover

 

Non ci volle molto per dare alla luce il nuovo platter: “Power Of The Hunter” venne rilasciato alla fine del 1982, lo stesso anno dell’esordio, una tattica seguita anche da altre band in passato, che tradiva, da una parte, la voglia del gruppo di consolidare ed estendere il proprio fandom e rivelava, dall’altra, l’ennesima label pronta a monetizzare il più possibile nel più breve tempo disponibile.

Power Of The Hunter” apparve meno fresco del predecessore sebbene l’impeto battagliero persisteva nel ritmo viscerale e compulsivo di “Walking Barefoot Over Glass” o nel manifesto programmatico “T.A.N.K.”. Molto apprezzata fu la revisione personale del classico degli Osmonds “Crazy Horses”, fatto che testimonia come i Tank possedessero una propria identità tale da infondere nuova linfa vitale ad un brano oggetto di numerose cover.

 

Campo minato

 

Power Of The Hunter” mantenne un buon indice di gradimento senza ricreare l’exploit del predecessore. Purtroppo, la mina è sempre nei paraggi e non lascia indenne nemmeno un cingolato: dopo aver dato alle stampe “Power Of The Hunter”, i Tank vennero investiti dalla chiusura della Kamaflage, incidente di percorso risolto in extremis dalla Music For Nations, che accolse i transfughi di guerra nel suo ovile.

Appena in tempo per pubblicare “This Means War” (1983), che, con l’entrata del chitarrista Mick Tucker (ex-Axis ed ex-White Spirit in sostituzione a Janick Gers), segnò un’evoluzione stilistica verso un guitarwork più elaborato e composizioni più lunghe, il tutto con un accento, che potremmo definire, metallico ed epico, come testimoniano i vibrati di saluto di “Echoes Of A Distant Battle”.

 

This Means War cover

 

Con “This Means War” il Carro Armato britannico dimostrava di non essere rimasto incagliato nel proprio sound ma era capace di progredire e maturare senza manomettere il proprio motore principale: canzoni come “(If We Go) We Go Down Fighting” e “Just Like Something From Hell” mantenevano intatti i cori fragorosi e guerreschi che avevano reso seminali i Tank, portatori di una vera e propria aura cameratesca (ovvero lo spirito di unione e fratellanza che costituisce le radici del metal e della musica dura in tutto il mondo).

Sebbene non si trattasse di un best seller, il nuovo disco ricevette una buona accoglienza trovando tutto sommato più consensi tra il pubblico che tra la stampa del settore.

 

Tank con Tucker

Nuova recluta. Con l’uscita di “This Means War” il plotone si arricchisce della new entry Mick Tucker (secondo da sinistra a destra).

 

Qualcosa scricchiola in casa Tank…

 

Honour and Blood cover

 

Anche le grandi famiglie hanno purtroppo un epilogo: nel 1983 i Tank subirono la defezione dei fratelli Brabbs, lasciando Algy e Tucker unici reduci del progetto. Peter Brabbs non seppe resistere agli eccessi e ben presto l’alcool e la droga lo resero incapace di suonare mentre il fratello Mark, solidale al fratello, lasciò la band madre e partecipò ai Paul Samson’s Empire (perdendo la grande occasione di entrare negli AC/DC per cavilli legali…). In sostituzione ai due Brabbs, vennero arruolati la seconda ascia Cliff Evans (transfugo dall’esilarante monicker Chicken Shack) e il batterista Graeme Crallan (fondatore degli White Spirit assieme a Janick Gers).

Il rimpasto in formazione rappresentò un fatto significativo e portò Algy e Tucker ad accollarsi l’onere del songwriting per “Honour & Blood”, nuova uscita tanto attesa dalla Music For Nations per speculare sul complesso. La nuova creatura mantenne le coordinate essenziali dello stile Tank e accentuò i tratti di un metal impostato sulla melodia e sull’assolo, puntando su un maggior innesto di tastiere e di background vocals. L’aggiunta dei synt era palese già all’inizio di “The War Drags Ever On” mentre i vibrati energetici spadroneggiano nella grandiosa title track. L’estro melodico raggiungeva il suo apice nell’elettrica “Too Tired To Wait For Love”, in cui uno scalmanato Algy cantava in pulito con risultati molto buoni, quasi a richiamare “(He Fell In Love With A) Stormtrooper”. I nuovi Tank si concessero addirittura una cover sopra le righe di un genere che non apparteneva loro (o almeno al loro normale bacino d’utenza): “Chains Of Fools” di Don Covay, cantata da un’indimenticabile Aretha Franklin! Una vera e propria riscrittura del copione originale, una versione con gli steroidi che ha poco o nulla a che vedere con la versione di partenza.

Simpatiche divagazioni a parte, il colpo di cannone veniva sferrato da “W.M.L.A.” (acronimo di wasting my life away), prova magistrale in cui Ward sfoderava una prestazione carismatica, destreggiandosi tra la sua tipica intonazione ringhiosa e un approccio meno ruvido e più sofferente. In aggiunta, il tocco galvanizzante del duo Tucker/Evans faceva decollare la canzone, impegnati in una battaglia all’ultimo, sanguinante assolo.

L’evoluzione investì non solo il registro ma anche i testi, che ora trattavano con maggiore impegno il tema della guerra, lanciando uno sguardo profetico verso la situazione attuale, lacerata dal fanatismo ideologico: esemplare a tal proposito “The War Drags Ever On”, che è, nel contempo, denuncia e ribellione alla violenza (“…War is forever but as if we had the time/To change their thoughts in their minds…”). Non a caso alcuni versi di “The War Drags Ever On” verranno censurati nel booklet della ristampa edita dalla Metal Mind, a causa di riferimenti troppi espliciti ai fautori di un terzo conflitto (“…With two world wars passed they want to start the third…”), allusioni che ai giorni nostri risultano poco meno che impronunciabili…

Anche l’argomento dell’amore assunse connotazioni più profonde, ora raffigurato con tonalità forti e accese.

Musica e liriche crearono un lavoro testosteronico e al contempo emotivo, capace di donare emozioni, sudore ed eccitazione ai metal kids. Insomma, non solo “onore” ma anche grande sacrificio. Poco spazio venne dato a tanta genuina carica e dedizione: la NWOBHM stava svanendo e l’epicentro della musica dura si stava spostando nel nuovo continente, da dove tutto aveva avuto origine. Stadi e arene diventavano templi per i giganti americani del “falso metal” tutto capelli cotonati e lustrini e il metal rock stava mutando pelle verso un suono ancora più enfatizzato, violento e ribelle: stava nascendo il thrash metal, erede predestinato dell’heavy classico.

 

Tank Cliff Evans

Era “Honour & Blood”. Quarto album e nuovo innesto: entra in formazione la seconda ascia Cliff Evans. Si cambia anche batterista, con Graeme Crallan alle pelli.

 

 

 

L’allievo supera il maestro

 

Metallica, Tank & Doro

Foto di gruppo. Metallica, Tank e Doro durante il “Ride the Lightning” tour del 1984.

 

A dimostrazione del fatto che il mondo del metal stava subendo una nuova scossa di rinnovamento, i Tank, tra i primi mover del genere, ironicamente fecero da supporter ai nuovi umori, incarnati dai Metallica. Infatti, in coincidenza dell’uscita di “Honour & Blood”, i ruoli si ribaltarono e la discesa dei nuovi arrivati divenne l’occasione per i Tank di affrontare la tanto sospirata tournée europea (con tanto di memorabili sbronze…). Bizzarro, visto che i Nostri si sarebbero meritati già tempo addietro un simile riconoscimento. Lacuna che assumerà connotati ancora più grotteschi se si pensa alla non inclusione dei Tank nella famosa raccolta “New Wave Of British Heavy Metal ’79 Revisited”, stilata dai loro stessi headliner…

Tornando ad “Honour & Blood”, l’album probabilmente era ormai sprovvisto dell’effetto sorpresa di cui aveva goduto l’esordio ed era privo di un sound al passo coi tempi, capace di sfruttare la pubblicità garantita da un tour con i Metallica. Si potrebbe stare ore a sindacare sull’importanza dell’avvenirismo in ambito musicale ma ci sono valori altrettanto fondamentali che un buon LP deve garantire: “Honour & Blood” possedava tutta l’immediatezza e l’energia necessarie a far emergere ancora una volta il combo dalla schiera di complessi nutriti con Judas Priest e Iron Maiden che imperversava al tempo. Il fallimento dell’album fu imminente, preannunciato anche solo per la mancanza di singoli che Music for Nations rifiutò di pubblicare.

 

Sul viale del tramonto

 

I Tank erano un complesso coerente, che non avrebbe rigettato le proprie basi; fu assurdo, dunque, pretendere da loro il salto commerciale verso le platee d’oltreoceano. D’altra parte, anche il metal vive le sue stagioni e uno stile, che prima era considerato un crossover rivoluzionario, può essere superato nel giro di pochi anni.

Tutti questi fattori e il termine dell’epopea NWOBHM decretarono il calo d’interesse verso Algy & Co., ormai relegati a cult band soprattutto nel circuito tedesco (il quale assorbirà le influenze del metal UK in modo non troppo dissimile dagli USA, per coniare un modus musicandi ancora più brutale e chirurgico).

Prima di appendere il chiodo al muro, il panzer britannico lanciò l’ultimo disperato attacco nella guisa dell’album Tank” (1987), sussulto del cingolato prima del congedo.

Tank” non era un prodotto di bassa lega e conservava pezzi meno freschi ma ancora frastornanti, movimentati da scorribande infuocate (“Reign Of Thunder”, “The Enemy Below”), cavalcate granitiche (“With Your Life”) e dalle frustate di basso e voce rutilante dell’onnipresente leader.

In piena epoca thrash e glam metal, la stampa non fu tenera con l’ultimo parto in casa Tank e la risposta di Algy non si fece attendere: Ward replicò che i Tank avevano tagliato i ponti con la loro nativa Inghilterra anni or sono e che i loro fan erano sparsi nel mondo. “Al di fuori del Regno Unito (in America)” ribatté AlgyIl Rock’n’Roll non è questione di moda ma semplicemente è un dato di fatto”.

Tank” venne rilasciato negli States nel 1989 e, purtroppo, le aspettative di Ward vennero deluse, visto che il disco passò in sordina mentre il panorama musicale stava nuovamente mutando verso l’ennesimo sconvolgimento: il grunge.

 

 

Nuova chiamata alle armi

 

Trascorsero anni e, passato il fenomeno grunge, nel 1997 Algy decise di riformare il gruppo con Tucker ed Evans e, assieme al batterista Steve Hopgood, intrapresero una serie di concerti nella vecchia Germania (dove le cover dei Sodom avevano mantenuto vivo l’interesse nei metallers per i Tank). La buona ricezione in sede live del pubblico spinse i Mastini dell’Ade a stampare “The Return Of The Filth Hounds – Live” (1998), contenente tracce estratte dal tour tedesco e alcune nuove composizioni, vera manna per coloro che stavano aspettando da anni materiale inedito dei loro beniamini corazzati. Il tanto atteso ritorno si materializzò nelle vesti di “Still At War” (2002) che rifugge il “blitzkrieg rock” degli inizi e si muove sulla falsa riga degli ultimi album, tentando di rievocarne l’atmosfera.

Come era accaduto per buona parte dei superstiti della NWOBHM, i tempi erano maturi per una nuova incursione. Tuttavia, la nostra storia non ha un felice epilogo o forse sarebbe meglio dire non si concluse e prese una brusca svolta per tutti i partecipanti: Ward, colpito da problemi all’udito, decise a malincuore di sciogliere la propria creatura. Non furono dello stesso parare Tucker ed Evans, che crearono una nuova line-up, sostituendo Algy con Chris Dale e inserendo il talentuoso Doogie White alla voce. Con questa formazione, il combo ha pubblicato gli album “War Machine” (2010) e “War Nation” (2012), entrambi dal sapore vicino ad un certo, ottimo metal teatrale e tradizionale, segnato dalla maestosità di White. Se l’estensione e l’interpretazione del singer hanno donato maggiori sfumature al registro (un retrogusto a là Ronnie James Dio), bisogna anche ammettere che ciò ha allontanato la nuova incarnazione dei Tank dalla sua essenza primordiale, quel bastardo heavy roll punkeggiante degli esordi, la cui anima risiedeva nella voce dell’estromesso Ward. Si muove sulle stesse coordinate stilistiche di “War Machine” e “War Nation”, “Valley Of Tears” (2015), dove Doogie White lascia il microfono a Zp Theart (Dragon Force, Skid Row).

Dal canto suo, Algy reagì rivendicando i diritti sul monicker e diede alle stampe “Breath Of The Pit” (2013), più vicino allo spirito originale (ribadito dal copyright sulla copertina) ma di qualità non diamantina.

 

Tank Breath of The Pit

Algy comes back. La copertina spartana dell’album “Breath Of The Pit”, con in bella mostra il marchio del copyright e firma del nostro Algy.

 

Finale aperto ed eredi inaspettati

 

E’ triste constatare come anche la musica possa essere stritolata dalle beghe legali. Le logiche commerciali e le dispute sono all’ordine del giorno e spesso avvelenano la vita anche in quegli ambiti che si spera vengano risparmiati e costituiscano un’isola dove fare abluzione delle proprie insoddisfazioni e incomprensioni personali.

Al di là delle contestazioni e dei dissapori, delle divisioni e delle diatribe, la fiaba dei Tank ha avuto ben altri ruoli e si è tolta qualche soddisfazione inaspettata, come Cliff Evans rivelò in un’intervista a “That’s It” nel 1997. “…l’interesse per i Tank c’è sempre stato e persiste. Mi ricordo che lessi di un’intervista pubblicata in una rivista italiana e Kurt spiegava che tra le sue più grandi influenze c’erano stati proprio i Tank. Agli inizi, il suo complesso sperimentava mettendo alla rinfusa le canzoni dei Tank.

Volete sapere qual era il nome di questo complesso?

Nirvana.

 

Eric Nicodemo

Algy on bass