Live Report: House of Lords a Pieve Fissiraga (LO)

Di Marcello Catozzi - 19 Febbraio 2012 - 20:00
Live Report: House of Lords a Pieve Fissiraga (LO)

Live report a cura di Marcello Catozzi

Si ringrazia Claudia Lozzi per le fotografie del reportage

La serata organizzata da Tanzan Music presso l’Infinity Pub di Lodi (un nuovo locale, ben strutturato, situato nei pressi del casello di Lodi dell’autostrada A-1 Milano – Bologna) prevede l’esibizione di tre band: Sandalinas, HungryHeart e House of Lords.
Purtroppo non facciamo in tempo ad assistere allo show dei Sandalinas; quando arriviamo all’Infinity, gli HungryHeart (la formazione lodigiana che gioca in casa) stanno facendo il loro ingresso sul palco, davanti a una platea piuttosto numerosa.

 

La line-up si presenta così:

– Josh Zighetti –  Voce
– Mario Percudani – Chitarre
– Steve Lozzi – Basso
– Paolo Bottecchi – Batteria

Si parte con “Boulevard of Love”, tratta dall’ultimo album “One Ticket to Paradise”, in cui Josh mette subito in mostra un’ottima forma vocale. In questa canzone c’è il biglietto da visita degli HungryHeart: un Hard Rock melodico, vigoroso e semplice, un po’ “street”, immediato e di facile presa, ma non per questo povero di contenuti; il tutto rigorosamente in puro stile Anni 80.
Si prosegue con l’orecchiabile “Stealing The Night” (tratta dal primo disco “HungryHeart”), introdotta da un riff graffiante e pulito nello stesso tempo, con la voce di Josh ruffiana e ammiccante quanto basta.
Con “One Ticket To Paradise” si alza notevolmente il ritmo: basso e batteria tirano la volata al resto del gruppo, in questa song ben costruita, che trova il culmine al momento dell’assolo centrale di chitarra.
Ora è la volta di “Man In The Mirror”, intensa e suggestiva, tipicamente AOR, interpretata in modo coinvolgente dal frontman e seguita con grande partecipazione dal pubblico.

“Angela” è un altro pezzo di quelli che ti restano in mente, dal ritornello molto “catchy” e dall’assolo incisivo e penetrante, i cui acuti si appoggiano alle ricche trame di basso intessute da un sorridente Steve.
Con l’appassionata “Love Is The Right Way” arriva un momento pacato, caratterizzato da sapienti intrecci chitarristici e condito da un delicato apporto vocale.
“Let’s Keep On Tryin’” impone una brusca accelerata, nel segno di un Hard Rock deciso e dirompente, sia negli assolo sia nel contributo potente della base ritmica.
“The Only One” ci trascina sulle note di una spensierata e frizzante song, impreziosita da un robusto lavoro chitarristico e con l’immancabile refrain, piacevole e assai orecchiabile, di impatto immediato, perfettamente in linea con i canoni A.O.R.

L’ultimo capitolo della rassegna è “River Of Soul”: arpeggi iniziali e ritornello che diventa subito familiare e avvolgente: “down, down down, to the river of soul…”. Con questa canzone, che racchiude in sé il marchio di fabbrica HungryHeart, la band si congeda da una platea giustamente entusiasta, raccogliendo applausi a tutto spiano, senza dubbio meritati in quanto gli HH (peraltro reduci da una tournée di successo in Olanda) si confermano sempre di più come una bella realtà nel panorama musicale nostrano.

Mentre la squadra di casa si affaccenda nello smontaggio delle apparecchiature, sopraggiungono di soppiatto gli ospiti, dribblando le file di spettatori che stanno aspettando il momento degli headliner della serata. Dopo qualche minuto di ritardo dovuto alla sistemazione del drum kit, si può dare il via allo show di questa storica band, nata nel 1987 (come i più informati lettori ricorderanno) da una costola dei Giuffria, grazie all’intuizioni di un certo Gene Simmons. Di quell’originaria formazione l’unico sopravvissuto è l’immarcescibile James Christian, di nero vestito, che viene accolto da una calda ovazione.

Il gruppo è così composto:

– James Christian  –  voce
– Jimi Bell – Chitarre
– Chris Mc Carvill – Basso
– BJ Zampa – Batteria

Il concerto si apre nel segno della melodia, con le atmosfere tipicamente AOR di “Sahara” (dall’omonimo disco datato 1990). L’impatto sonoro è ottimo, così come la coesione palesata dal quartetto americano.
Si fa un salto in avanti (dal punto di vista temporale) con “I Don’t Wait All Night”, dall’album del 2008, “Come to my Kingdom”, seguita da una scoppiettante “Big Money” (2011).
Dall’ascolto dei primi brani emerge un’intesa perfetta tra i componenti della band, unitamente a una buona dose di divertimento che non guasta mai, specie di Chris Mc Carvill e di BJ Zampa, drummer tecnico e di gran precisione, ma anche dotato di quel peso specifico necessario a sostenere e trascinare tutto l’impianto.
“Come To My Kingdom” rappresenta un po’ la summa di quanto appena descritto: l’elemento unificante delle componenti sonore è dato dalle linee vocali, pulite e impeccabili, confezionate da quella vecchia volpe di James Christian, che a un certo punto, però, denuncia un lieve cedimento fisico e si eclissa nel camerino.
Tuttavia, dopo questo imprevisto break che dura qualche minuto, si riprende senza altri intoppi o interruzioni, e il concerto procede nel migliore dei modi. James, rimesso in sesto dopo il breve pit-stop, riprende in mano la situazione (il microfono) e il suo sorriso diventa il filo conduttore che ci trasporta in un viaggio tra passato e presente, accompagnato nei cori dai più scatenati fra gli aficionados, che cantano a squarciagola i ritornelli delle canzoni.

I momenti più intensi sono segnati da “S.O.S. In America”(da “World upside down”, del 2006), “Love Don’t Lie” (1988), “Cartesian Dreams” (2009), “Blood” (2011), in cui si fondono potenza strumentale e dolcezza melodica, ove i selvaggi riff di Jimi vengono ammorbiditi dal tocco calibrato delle tastiere.
A seguire, “I’m Free” e “These Are The Times” (siamo nel 2006), incalzata da “Drumagogery”. Una nota a parte merita BJ, il quale come di consueto mette in evidenza la una tecnica indiscutibile e un tiro massiccio, bello pesante, con qualche concessione allo spettacolo. Dal canto suo, Jimi esibisce grinta e spessore di ottimo livello, sciorinando schitarrate di stampo metal.
“One Man Down” (2011) è una vera esplosione di energia, con quei riff di grande impatto, così come “Rock Bottom” (2006). Si chiude con un trittico d’altri tempi, ovvero degli albori della storia: “I Wanna Be Loved”, “Pleasure Palace” e la hit “Slip Of The Tongue”, che suggella il termine dello show.

Il pubblico appare molto soddisfatto della performance, che ha posto in rilievo – oltre alle eccelse qualità dei singoli – una resa collettiva di classe, apprezzabile sotto il profilo sia tecnico sia artistico. Gli House of Lords hanno ancora una volta dimostrato, in versione live, di saper fare coesistere in modo equilibrato la componente Hard Rock con gli influssi Metal (prerogativa che ha fatto la fortuna di moltissime formazioni, nel passato più o meno recente), dosando sapientemente l’apporto delle tastiere e delle basi e curando in modo particolare la qualità dei suoni, soprattutto le linee vocali di James Christian, direi quasi… perfette.
Ci congediamo anche noi dagli amici, che è sempre un piacere incontrare in queste circostanze (coi tempi che corrono), apprestandoci ad affrontare il viaggio di ritorno con la consapevolezza di aver assistito a una bella serata di musica. All in the name of Rock!

Marcello Catozzi