Live Report – Gods Of Metal 2012 – Domenica 24 giugno

Di Daniele Peluso - 24 Luglio 2012 - 13:00
Live Report – Gods Of Metal 2012 – Domenica 24 giugno

 

 

La giornata quest’oggi incomincia con due ore di anticipo rispetto al giorno precedente e alle 10:30 del mattino, nonostante l’ora poco consona, sono già in molti, più di quanti se ne potevano contare il giorno precedente, pronti nel pit o appena dietro le transenne a scatenarsi al ritmo di thrash/death e metalcore, come previsto dal cartellone.

 

Report a cura di Stefano Burini.

E’ un risveglio decisamente brutale quello riservatoci dagli australiani I Killed The Prom Queen, act legato a doppio filo alla scena rap/hardcore australiana e a quella deathcore inglese per via dei progetti che coinvolgono il batterista JJ Peters, vocalist e leader dei Deez Nuts, qui in veste di batterista e il guitar player Jonah Weinhofen, in forza ai britannici Bring Me The Horizon.
La musica proposta dal quintetto di Adelaide è un metalcore piuttosto canonico in cui la fanno da padrone riffing ossessivo, percussionismo iperviolento e gli urlacci del tatuatissimo cantante Jamie Hope; nulla di eclatante ma ad ogni modo suonato con la carica che ci si attende da un gruppo chiamato ad aprire una giornata così impegnativa. Si distingue la conclusiva “Sharks In Your Mouth” per il bell’assolo di chitarra: curato, tecnico e addirittura melodico.
 


Report a cura di Stefano Burini.

Piuttosto fuori contesto, in una giornata votata all’estremo, i canadesi Kobra And The Lotus, formazione dedita ad un heavy/power neoclassicheggiante e capitanata dalla bellissima cantante Kobra Paige, inguainata, nonostante il grande caldo, in un paio di conturbanti pantaloni di pelle e segnata in viso da un vistoso trucco rosso a contrastare in maniera decisamente riuscita con i lunghi capelli biondi. L’inizio non è dei migliori, la voce della bella vocalist pare non essere stata “scaldata” a dovere e gli acuti e i vibrati dispensati nei primi due brani suscitano qualche perplessità negli astanti. Con lo scorrere dei minuti e il netto miglioramento delle condizioni delle corde vocali di Kobra, l’esibizione sale di tono e con essa l’apprezzamento del pubblico per una band dal sound indubbiamente poco originale ma dall’ottima resa dal vivo. Molto apprezzati oltre alle doti fisiche e canore della cantante canadese e alle sue pose da Metal Lady, l’abilità tecnica dei due chitarristi, in più d’un occasione lanciati in serratissimi passaggi all’unisono di grande effetto.

 

Report a cura di Stefano Burini.

Salgono sul palco con cinque minuti di anticipo e preceduti da un fastidioso ronzio scandito da un battito cardiaco: sono le 12:25 ed è l’ora degli statunitensi August Burns Red e il loro melodic metalcore non fa prigionieri fin dalle brime battute. I cinque christian *-corers saltabeccano da un lato all’altro dello stage mentre il frontman jake Luhrs fomenta i presenti con un cantato misto growl/scream decisamente efficace. L’età media è decisamente più bassa rispetto alla giornata precedente e tra il pubblico c’è una quantità davvero inaspettata di persone giunte qui per loro, con tanto di maglie e cappellini e i ragazzi di Lancaster non tradiscono le attese tra riff assassini, breakdown e intermezzi melodici. Con la seconda traccia in scaletta si scatena un pogo degno di un concerto punk d’annata e gli inserti spagnoleggianti riescono a addirittura a far ballare la quasi totalità dei presenti. Da qui in poi l’intero concerto degli August Burns Red si dipana sulle coordinate tipiche del metalcore, tra accenni di circle pit, headbanging senza sosta e addirittura intro a base di chitarre armonizzate che farebbero invidia i migliori Killswitch Engage. Magari il genere potrà non convincere i più ma di certo agli August non è possibile imputare inconsistenza o mancanza di grinta e lo show di oggi costituisce un ottima prova a sostegno.

Report a cura di Stefano Burini.

Ore 13:40, irrompe sulla scena in tutta la sua foga e il suo carisma Dez Fafara con i suoi Devildriver e il pubblico è decisamente caldo e pronto a maciullarsi le ossa al suono del death/groove metal della band di Santa Barbara. L’ex Coal Chamber e tutto il resto della compagine sembrano decisamente in palla e le numerose corna al cielo nel pit di fronte a noi sono evidente segno di gradimento da parte di un pubblico per nulla intimorito da temperature a dir poco torride e viceversa ben disposto a rispondere con veemenza all’arringare di un indiavolato Dez e alle svisate dell’ elettrica di Mike Spreitzer. “Dead To Rights” tira un fuori un riff thrash/death che scatena un gran pogo nel pit ed headbanging senza sosta tra la folla dietro le transenne e il massacro continua con il tipico Devildriver sound lungo tutto il concerto, con menzione particolare per “Not All Who Wander Are Lost”, con Dez sempre sugli scudi e un gran lavoro di basso e batteria nelle retrovie. E’ di nuovo Dez in persona, nel finale, a dividere il pubblico in due fazioni come fosse il Mar Rosso e ad orchestrare un gigantesco circle pit sia nella zona antistante che in quella restrostante le transenne prima di salutare tutti e tornare nel backstage dopo quasi un’ora di musica suonata a tutto volume e senza cali di sorta.

 

Report a cura di Stefano Burini.

Alle tre in punto, tra il nebuloso telone sullo sfondo e i due grossi pannelli con rami secchi su sfondo grigio plumbeo ai lati del palco, arriva il turno di Matt heafy e dei suoi Trivium. Il concerto si apre con la nuovissima “In Waves”, preceduta dalla drammatica intro “Capsizing The Sea”, convincente e ben eseguita a dispetto di suoni tutt’altro che perfetti, con la batteria troppo in evidenza a coprire un po’ il lavoro degli altri musicisti. Grande coinvolgimento del pubblico e grande foga sulla successiva e potentissima “Pull Harder In The Strings Of Your Martyr”, con Corey a dare una gran mano a Matt sui passaggi in growling più spinti; segue Rain anch’essa estratta da quel piccolo manuale del metalcore che risponde al nome di “Ascendancy”, uno dei due album, oltre all’ovvio “In Waves” su cui i ragazzi di Orlando decidono di incentrare la loro setlist.


“Black” apre con un riff di matrice thrash e per la prima volta Heafy canta interamente in pulito, peraltro con ottimi risultati! “The Deceived” viene introdotta da un riff-mitraglia e da una strofa cattivissima in growl, ma è il refrain melodico a non fare prigionieri, con il supporto di ben tre voci a fare la differenza. Sulla successiva “Dusk Dismantle”, di nuovo da “In Waves”, Heafy chiede supporto al pubblico sull’acidissimo refrain, ma è un bel chiedere: tale e tanta la potenza sprigionata dalla gola del giovane cantante americano che tutti i presenti messi assieme non arrivano a un simile risultato. Si prosegue con “Drowned And Torn Asunder” e la sua atmosfera thrashy, immediatamente tagliata in due dal vocalismo lacerante di Heafy prima dell’ennesimo e riuscitissimo refrain melodico. “A Gunshot To Head Of Trepidation”, “Throes Of Perdition” e “Leaving This World Behind” mantengono l’esibizione su un livello esecutivo decisamente alto, lato sul quale i Trivium non risultano in alcun modo attaccabili. Se proprio proprio dobbiamo trovare un punto negativo, ai thrasher meno oltranzisti è certamente mancata la riproposizione di alcuni dei brani più riusciti presenti su “The Crusade”, ma forse sarebbe ingeneroso andare a cercare il pelo nell’uovo a fronte di una prestazione di alto profilo come quella cui abbiamo appena assistito.

Setlist:

01. Capsizing The Sea
02. In Waves
03. Pull Harder In The Strings Of Your Martyr
04. Rain
05. Black
06. The Deceived
07. Dusk Dismantled
08. Drowned And Torn Asunder
09. A Gunshot To Head Of Trepidation
10. Throes Of Perdition
11. Leaving This World Behind

 

Report a cura di Tarja Virmakari e Christian Tallone.

Ore 16:15: è il turno dei potenti Lamb Of God.
Il concerto inizia con un intro di rumori, simili a fruscii, come amplificatori che stanno per esplodere, mentre un enorme banner bianco con la scritta Lamb Of God fa da sfondo alla batteria di Chris Adler, primo membro a salire sul palco e ad iniziare lo show. In piedi dietro al drum kit, Adler accenna ad un breve saluto al pubblico esultante: è l’incipit per l’attacco battagliero dell’opener “Desolation”. Uno alla volta, gli altri componenti della band lo raggiungono: ultimo a fare la propria entrata in scena è il controverso cantante Randy Blythe.
La band si presenta da subito inferocita come un branco di belve: veloce, sicuro e preciso come un metronomo, il quintetto non perde un colpo, facendo formare svariati circlepit tra il pubblico per l’intera durata dell’esibizione. I ragazzi sembrano davvero concentrati, tanto che solo dopo il secondo brano, la terremotante “Ghost Walking”, Blythe saluta la folla e presenta la band.
Suoni ottimi e volumi potenti, riescono ad esaltare ancora di più la bravura dei Lamb of God, formazione coriacea e dal grande impatto in sede live, caratteristiche confermate anche dall’esibizione di quest’oggi.
Il gruppo prosegue impeccabile nella setlist, non senza indugiare in un minimo artificio scenico: durante il terz’ultimo brano, “Laid to Rest”, il telone posteriore cade d’improvviso per farne comparire un altro raffigurante un enorme occhio (immagine presente nella copertina dell’ultimo album “Resolution”), giusto in tempo per la chiusura riservata alle potentissime “Redneck” e “Black Label”.

Finale classico per lo show della band di Richmond: lanci di bacchette e plettri, preludono alla chiusura di un live set corposo ma soprattutto convincente, tanto da lasciare nel pubblico l’emozione ed il desiderio di rivedere nuovamente all’opera Randy Blythe e compagni.

Setlist:
01. Desolation
02. Ghost Walking
03. Walk With Me in Hell
04. Set to Fail
05. Now You’ve Got Something to Die For
06. Ruin
07. Hourglass
08. The Undertow
09. Omerta
10. Contractor
11. The Number Six
12. Laid to Rest
13. Redneck
14. Black Label
 

Report a cura di Stefano Burini.

Dopo il devastante show dei Lamb Of God giunge il turno di Zakk Wylde e dei suoi Black Label Society, dopo Ozzy certamente il gruppo più popolare e atteso in scaletta. L’entrata in scena è decisamente d’effetto, con Zakk ben piantato in mezzo al palco in tutto il suo ritrovato vigore, con in testa un copricapo piumato stile capo indiano e la classica Gibson Bullseye bianca e nera tra le mani. I suoni sono potenti e perfetti e tale è la presenza scenica del barbutissimo guitar player che il resto della band quasi scompare al cospetto di uno Zakk Wylde ispirato sia dal punto di vista vocale che strumentale e intento a macinare tonnellate di riff spaccaossa e di assoli al fulmicotone. “Crazy Horse” apre con l’impatto che tutti si aspettano e “Bleed For Me”, con il suo ritmo ancheggiante ed ipnotico e la successiva “Funeral Bell” non sono da meno; la voce di Zakk è ora melodica, ora sporchissima: un vero portento e, per quanto riguarda l’abilità chitarristica, beh, se finora avete vissuto su Marte, forse è meglio che ci torniate. Veloce cambio di chitarra ed ecco farsi strada”Overlord” e la successiva “Parade Of The Dead”, ma è sulla spettacolare “Fire It Up” che il concerto raggiunge il culmine, con Zakk ad eseguire il mastodontico guitar riff e a mettere in bella mostra un cantato  aggressivo ed esaltante e un assolo da mille e una notte che scava un solco profondo tra i Black Label Society e i pur bravissimi gruppi che li hanno preceduti. L’intermezzo con il lunghissimo assolo a tutto shredding strappa urla e applausi a fronte di una carrellata di scale a velocità supersonica e bending eterni, ma l’eccessiva durata, alla lunga finisce per annoiare un po’. Si riparte con la tambureggiante “Godspeed Hellbound” e il discorso non cambia di una virgola, tra vocals ozzyane e cascate di note; nuovo riff tritaossa ed arriva il momento di “Suicide Messiah”, secondo estratto dal celebratissimo “Mafia” risalente all’ormai lontano 2005 e c’è gloria anche per uno dei roadie, sul palco con tanto di megafono. “Concrete Jungle” e “Stillborn” concludono uno show di livello altissimo il cui unico difetto si può riscontrare nella eccessiva lunghezza dell’assolo di chitarra a discapito di una tra “In This River” e “No More Tears”, classiconi invocati da tutti i presenti e purtroppo mancanti all’appello.

Setlist:

01. Crazy Horse
02. Funeral Bell
03. Bleed For Me
04. Demise Of Sanity
05. Overlord
06. Parade Of The Dead
07. Fire It Up
08. Guitar Solo
09. Godspeed Hell Bound
10. Suicide Messiah
11. Concrete Jungle
12. Stillborn

 

 

Report a cura di Tarja Virmakari e Christian Tallone.

Pare che Mikael Akerfeldt non ne voglia proprio più sapere di metal e di death melodico. La scaletta eseguita di fronte agli spettatori del Gods Of Metal 2012 è, infatti, all’85% incentrata su brani lenti, semiacustici, cantati quasi interamente in pulito, degni di un imitatore di basso profilo dello Sting solista dei primi anni ’90. Peccato ci si trovi ad un festival metal e nonostante Akerfeldt dichiari in più di un occasione di “fregarsene”, la prestazione sua e dei suoi Opeth è decisamente soporifera. Gli insistiti monologhi del cantante svedese, probabilmente in cerca di un secondo lavoro come cabarettista, risultano logorroici e irritanti, con la continua riproposizione di battute a dir poco stantie (ben tre volte si è sentito chiamare in causa il povero Eros Ramazzotti, tra la pressoché totale indifferenza del pubblico). Peccato, perché gli Opeth sono, o sono stati, una grande band e le ultime tre canzoni in scaletta, lo dimostrano ampiamente: belle, articolate e ben eseguite, con un Akerfeldt che decide di farci finalmente la grazia di tornare al registro vocale che gli è più consono, quello del growl e di lasciare in pace i fantasmi di Ronnie James Dio e di certo cantautorato che proprio nulla c’azzeccano con gli Opeth o con quello che dovrebbero essere.

Setlist:

01. The Devil’s Orchard
02. I Feel the Dark
03. Slither
04. Windowpane
05. Burden
06. The Lines in My Hand
07. Heir Apparent
08. The Grand Conjuration
09. Demon of the Fall
10. Deliverance
 

 

Report a cura di Tarja Virmakari e Christian Tallone.

Alle 21:30, con circa 15 minuti di anticipo e per noi intenti finalmente a rifocillarci, un pelo a sorpresa, inizia l’intro di Ozzy, proiettata su di un enorme maxischermo a sfondo del palco.
Una cosa tutto sommato già vista più volte, con gli spezzoni di molti dei suoi video più famosi a rincorrersi in un unica clip, ma dall’effetto come sempre assicurato: la gente inizia a correre per avvicinarsi il più possibile, ammucchiandosi tra le transenne e la torretta del mixer.
Con una lineup composta oltre che da Ozzy, da Blasko, Gus G, Tommy Clufetor e Adam Wakeman, il gruppo inizia alla grande, smuovendo la folla con i mega-classici “Bark At The Moon”, “Mr. Crowley” e “Suicide Solution”: la calca si fa subito immane ed il caldo pure. Quel mattacchione dello “zio” Ozzy non perde l’occasione “estiva” per bagnare le prime file e se stesso con un’idrante.
La crew di musicisti assemblata per l’occasione si mostra impeccabile, supporto perfetto ad una grande leggenda del metal. Dopo la meravigliosa “Shot In The Dark”, mr. Osbourne si ritira dietro le quinte, lasciando al resto della band un po’ di meritato spazio nell’esecuzione di “Rat Salad”. È il caso di dirlo, “via il gatto, i topi ballano”: assolo, improvvisate e jam session si susseguono sino al ritorno del padrone di casa, stavolta accompagnato da due pezzi grossi come Slash e Geezer Butler. I due raggiungono Tommy ed Adam per eseguire tre grandi cover dei Black Sabbath: “Iron Man”, “War Pigs” e “N.I.B.”, brani dall’effetto devastante sul pubblico e sui vecchi nostalgici come noi, letteralmente in visibilio.
Come atteso, Slash abbandona poi il palco per lasciare campo al nerboruto Zakk Wylde, accolto quasi come un figlio da Ozzy: baci, abbracci introducono un breve istante in cui Zakk s’impossessa della scena, divenendo unico protagonista dello spettacolo. Per il pubblico e per le inquadrature delle telecamere.
Cori infiniti inneggianti al singer britannico ed esultanza collettiva si alternano sino all’annuncio dell’ultimo pezzo della serata, la sontuosa “Crazy Train”. Come da copione, c’è tuttavia spazio per il tradizionale encore, eseguito ancora una volta con l’aiuto dell’amico Slash: lo show termina alla grande con “Mama I’m coming Home” e con la tellurica e devastante”Paranoid”.

Con una buona mezz’ora di anticipo, alle 23.00, minuto più, minuto meno, l’edizione 2012 viene definitivamente mandata in archivio con le note di chiusura del grande spettacolo messo in scena dal leggendario Ozzy e dai suoi “friends”. Una cosa che, forse, non ha poi nemmeno infastidito troppo i presenti, pronti a correre di volata verso il bar per un supplemento di emozioni, garantite dal finale del match Italia-Inghilterra. Con tanto di birra fresca svenduta a metà prezzo per l’occasione: visto il risultato, una conclusione decisamente degna!

Una domanda, a corollario dell’ottima esibizione degli headliner di questo quarto giorno, ci viene tuttavia spontanea: se Ozzy non avesse avuto tra i suoi “Friends” una all star band composta da tanti grandi musicisti, pronti a reggere uno spettacolo praticamente perfetto, ma ci fossero stati (come inizialmente previsto) gli originali Black Sabbath, il concerto sarebbe risultato ugualmente tanto eccitante e pirotecnico?

Un quesito forse inutile a cui non possiamo avere risposta, se non sperando nel ritorno in salute, al più presto, dell’unico ed inimitabile Tony Iommi…

Setlist:

Line Up: Ozzy Osbourne/ Blasko / Gus G / Tommy Clufetos / Adam Wakeman
01. Bark At The Moon
02. Mr. Crowley
03. Suicide Solution
04. I Don’t Know
05. Shot In The Dark
06. Rat Salad (Black Sabbah Cover)
Line Up: Ozzy Osbourne/ Slash / Geezer Butler / Tommy Clufetos / Adam Wakeman
07. Iron Man (Black Sabbah Cover)
08. War Pigs (Black Sabbah Cover)
09. N.I.B. (Black Sabbah Cover)
Line Up: Ozzy Osbourne/ Zakk Wylde / Geezer Butler / Tommy Clufetos / Adam Wakeman
10. Fairies Wear Boots (Black Sabbah Cover, on stage: Ozzy Osbourne/ Zakk Wylde / Geezer Butler / Tommy Clufetos / Adam Wakeman )
Line Up: Ozzy Osbourne/ Blasko / Zakk Wylde / Tommy Clufetos / Adam Wakeman
11. I Don’t Want To Change The World
12. Crazy Train
13. Mama I’m Coming Home
14. Paranoid (Black Sababth Cover)