Death SS: studio report di “Resurrection”

Di Orso Comellini - 6 Maggio 2013 - 22:07
Death SS: studio report di “Resurrection”

In un caldo e soleggiato pomeriggio primaverile mi sono recato in un isolato casolare nelle verdeggianti campagne lucchesi, dove incontrerò, assieme a numerosi colleghi della stampa heavy metal nostrana, uno dei gruppi che hanno scritto in maniera indelebile alcune delle più importanti pagine nella storia dell’H/M tricolore: i Death SS, pronti a tornare in pista con il nuovo album “Resurrection”.

Dopo essere usciti dalle scene per tanti anni ed aver, per così dire, chiuso il cerchio della propria carriera con il “Settimo Sigillo” (“The 7th Seal”, del 2006), i Nostri sembravano aver scritto la parola “Fine” in fondo ai titoli di coda e, invece, è lo stesso deus ex machina del gruppo, Steve Sylvester, a confermare che «non ci sarà alcun ottavo sigillo», tuttavia «se il settimo sigillo sanciva la fine di un epoca e la chiusura di un cerchio, “Resurrection” è semplicemente un nuovo inizio. Da qui la scelta del titolo».

Che i tempi siano radicalmente cambiati e che quel ciclo ormai si sia chiuso, rispetto per esempio alla crepuscolare intervista tenuta in un cimitero dal sommo Beppe Riva ai tempi di Rockerilla, ce ne danno conferma proprio il contesto bucolico e l’estrema affabilità e professionalità di tutto il gruppo, oltre allo stesso Sylvester che afferma «è normale, anche perché sennò sarebbe patologico. Nel 1977 eravamo dei bambini, o comunque minorenni, il nostro era un atteggiamento quasi morboso, malato. Ho voluto tagliare il cordone ombelicale con quel periodo con il libro “Il Negromante Del Rock” nel quale parlo solo di quel periodo lì, per far capire cosa succedeva e perché dei ragazzini minorenni si comportassero in quel modo. Era una cosa che non faceva nessuno all’epoca, eravamo i primi. Sicuramente non era un atteggiamento da incoraggiare o da copiare, ma allora era veramente un qualcosa di nuovo. Se oggi, alla mia età, mi truccassi per andare di notte nei cimiteri per fare un’intervista mi sentirei un coglione, ma non perché non ci creda più, intendiamoci, piuttosto perché sono cresciuto e come tutti, si spera, crescendo sono evoluto… se uno rimane sempre lì la cosa è pericolosa… preoccupante. Pur non rinnegando nulla di quello che ho fatto, delle mie esperienze, giuste o sbagliate che siano state, cerco di orientarle e focalizzarle nel presente, con un occhio alla realtà. Cerco di essere più professionale possibile, perciò la passione per certi temi c’è sempre, la grinta c’è sempre, ma cerco di mediarle con una profondità che da ragazzino non avevo».


A sx Bozo Wolff (batteria) e Steve Sylvester a dx

Ci tiene perciò a precisare più volte che questa rinnovata e più matura passione, come vedremo, poggia ancora sui tre pilastri che da sempre hanno contraddistinto e caratterizzato l’opera dei Death SS: il cinema del terrore in generale, dai classici della Hammer Film Production ai lavori di Alejandro Jodorowsky, i fumetti sexy-horror italiani anni ’70 disegnati da Emanuele Taglietti (che si è occupato del visionario artwork che impreziosisce “Resurrection”) – autore di “Zora”, “Belzeba” e “Sukia”, tra gli altri – da sempre un pallino di Sylvester, e l’esoterismo e l’occultismo di figure di riferimento per la band come il “Magus” Aleister Crowley. Ai quali si potrebbe aggiungere la passione per il teatro e quindi l’uso di maschere e costumi di scena per rendere i loro show e le loro scenografie delle vere e proprie rappresentazioni teatrali. Alla domanda diretta su quali saranno gli effetti scenici che caratterizzeranno il prossimo tour, però, la risposta è stata un lapidario «top secret».


Qualche anteprima del booklet curato da Emanuele Taglietti

Anche dal punto di vista musicale, i “nuovi” Death SS, pur non rinnegando il proprio background, guardano più al futuro e alla modernità. Non a caso troviamo molti campionamenti, inserti di elettronica, riferimenti più o meno velati al nu metal, come elementi di continuità con le loro ultime release. Da segnalare poi che, se della produzione si è occupato completamente lo stesso Sylvester, Freddy Delirio, in qualità di tecnico del suono,  ha registrato e anche missato il disco (nel suo studio privato che oggi abbiamo l’opportunità di visitare). La masterizzazzione, invece, è stata fatta in Finlandia, dal tecnico Svante, che tra l’altro si è occupato anche dell’ultimo Rammstein, particolare che si evince dal conferimento al suono delle chitarre di quella grana grossa che contraddistingue le produzioni del combo tedesco. A chi fa notare, però, che certe composizioni possono ricordare i lavori di 69 Eyes o Him, Sylvester risponde che «il nostro intento è stato quello di recuperare un po’ le origini e le influenze del gruppo fin dagli inizi», pur sempre privilegiando sonorità moderne, per cui «più che seguire quei gruppi, che tra l’altro non conosco, siamo andati più indietro. Tra le nostre influenze, per esempio, ci sono sempre stati i Sisters Of Mercy che successivamente hanno influenzato anche quei gruppi citati. Perciò, più che farci influenzare da quei gruppi, siamo andati direttamente all’origine, a quando è nato il movimento dark/gothic che ascoltavo da ragazzo». Mentre a chi fa notare che stiano tornando in auge i cosiddetti gruppi Horror Rock/Metal, come Ghost, Blood Ceremony o i nostrani Cadaveria, Story Of Jade risponde di non conoscere bene quelle band, ma che per esempio il cantante dei Ghost, conosciuti grazie all’amicizia con Lee Dorrian (che ha prodotto il debutto), è tesserato al loro fanclub… e poi aggiunge «nel termine Horror possono rientrare tante cose, sono tanti i gruppi che fanno riferimento all’horror, dai gruppi black metal ad altri che fanno un disco o scrivono dei testi che parlano di sangue o temi simili. Noi preferiamo definirci oggi Shock Rock, quell’etichetta creata negli anni ’70 per definire gruppi che facevano un certo tipo di spettacolo. In quel calderone c’erano gruppi come Alice Cooper, che è un po’ il capostipite di questo genere, oppure i Kiss. Tutte band che dal vivo hanno sempre fatto un certo tipo di spettacolo con lo scopo di scioccare il pubblico. Abbiamo sempre usato l’etichetta Horror Music, fin dall’inizio, perchè abbiamo sempre trattato l’horror a 360 gradi, dal punto di vista lirico, visivo, nei nostri spettacoli, adottando i personaggi classici della letteratura gotico/orrorifica come il vampiro o la mummia. Mi rendo conto che oggi il tema sia abusato e scontato, ma all’epoca eravamo praticamente gli unici a farlo e oggi rimaniamo coerenti con noi stessi cercando di far evolvere certi prsonaggi, pur mantenendoli».


Glenn Strange (basso)

Altro elemento di discontinuità con il passato è da ricercare nel processo di composzione e registrazione dei singoli brani, in quanto, avendo uno studio di registrazione a propria disposizione e potendo dedicare ben quattro anni alla realizzazione dell’album, si sono potuti concentrare di più sulle singole canzoni, tanto che da loro stessi viene definito una sorta di “Best Of” di pezzi inediti resi omogenei in fase di post-produzione – definito dallo stesso Freddy come un lavoro titanico anche per la mole impressionante di tracce, come le circa 130 di “The Song Of Adoration”. Ognuno con una propria anima e composto per uno scopo ben preciso (come ad esempio per la colonna sonora di un determinato film o telefilm) o costruito attorno ad un certo concetto ripreso dagli scritti di Crowley o una specifica atmosfera. Inoltre non hanno composto tutti i brani per poi registrarli in un’unica sessione, ma hanno arrangiato, composto e sviluppato ogni singola traccia e poi l’hanno registrata singolarmente. Il tutto per dare vita ad un lavoro molto vario, com’è “Resurrection”, ma che non sembrasse slegato nelle sue singole parti, dalla minimalista e doomeggiante “Ogre’s Lullaby” alla lunga suite con tanto di orchestra “The Song Of Adoration”, passando per il rock’n’roll alla Alice Cooper di “Bad Luck” e il gothic rock di “Dionysus”.


Freddy Delirio (tastiere e produttore) a sx assieme a Sylvester

Tralasciando ulteriori approfondimenti sulle singole tracce, che verranno affrontati in sede di recensione, non rimane che concludere con qualche ultima considerazione. In primis un dato in un certo senso in controtendenza con l’andamento generale di un disco teso alla modernità, come la presenza di assoli di chitarra ben fatti e dal gusto classicheggiante del buon Al Denoble, il quale ci ricorda che «nella carriera dei Death SS, anche prima che io entrassi, ci sono state delle canzoni con assoli importanti, è sempre stato un aspetto importante per la band, mi vengono in mente i soli di “Horrible Eyes”, “Terror” o “Vampire”. Ho semplicemente cercato di lavorare in quell’ottica. Sono molto legato al vecchio materiale della band e quello l’ho sempre considerato un trademark importante. A livello di influenze ho sempre apprezzato molto chitarristi anni ’80 come George Lynch (Dokken, Lynch Mob) e Steve Stevens (Billy Idol) per la loro vena rock».

A compendio di questa magnifica giornata non sono mancate poi domande sugli altri progetti di Steve Sylvester, il quale si è detto possibilista per quanto riguarda un’eventuale prosecuzione del lavoro iniziato con Opus Dei (poi ribattezzato W.O.G.U.E.) e Sancta Sanctorum. Chiusa, invece, probabilmente in maniera definitiva, una collaborazione futura con l’altro membro fondatore dei Death SS, Paul Chain, nonostante la ristampa dell’album solista “Free Man” contenente anche il DVD dello show tenuto in occasione dell’Italian Monsters  del 1993 presso l’Auditorium Flog di Firenze, in quanto «so che ha completamente rinnegato quello che ha fatto in carriera, invita i propri fan a bruciare i dischi e adesso si fa chiamare con il proprio nome in italiano. Non sono assolutamente in rapporti con lui quindi non sono né buoni né cattivi, semplicemente non ci sono. Quando ci siamo sentiti abbiamo parlato tranquillamente anche per ore, ma purtroppo è una persona un po’ disturbata, con evidenti problemi. Quanto alla ristampa è una cosa che mi è sempre stata chiesta dai fan, dato che i master originali sono andati persi perchè analogici e in VHS, ma sinceramente è un’operazione che non mi ha coinvolto più di tanto, solo marginalmente. Mi sono limitato a fornire il materiale all’etichetta per far sì che i fan avessero un prodotto ufficiale e non un bootleg. E’ il testamento di un periodo di cui non ho particolare nostalgia».

Orso “Orso80” Comellini