Death

Intervista Blasphemer (Simone Brigo)

Di Daniele D'Adamo - 9 Novembre 2016 - 18:32
Intervista Blasphemer (Simone Brigo)

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Siete al secondo full-length in diciotto anni di carriera. In tale periodo ne sarebbero potuti uscire forse di più?

Certamente sì, se avessimo fatto le cose più seriamente prima e se avessimo avuto una lineup più stabile dopo. Per molti anni, a partire dalla nostra formazione nel 1998 e fino al 2005, siamo stati una band piuttosto immatura, attivi soprattutto in Italia e senza molti contatti. Quasi tutto il materiale di quel periodo è andato perduto: canzoni scritte e suonate dal vivo ma mai registrate, tentativi di cercare una nostra identità artistica che scontavano ancora la nostra scarsa esperienza di quegli anni, come la nostra insoddisfazione rispetto ai risultati. Componevamo e buttavamo tutto, sistematicamente, cercando quella formula che ci avrebbe portato anni dopo a essere i Blasphemer. Il 2005 è stato un anno di svolta: pensavamo di aver finalmente trovato l’alchimia giusta e di poter entrare in studio per registrare qualcosa che fosse più di un semplice demo di un gruppo anonimo della provincia, come invece era stata la registrazione del 2002, immatura e informe. Avevamo ragione e il promo del 2005 (oggi ristampato su pro-tape a undici anni di distanza da Unholy Domain Records) ci ha infatti guadagnato il primo contratto per la statunitense Comatose Music, etichetta con cui lavoriamo ancora oggi. Dopo aver firmato per Comatose Music ci siamo messi subito al lavoro e nel 2008 usciva il nostro primo full-length “On The Inexistence of God”, a cui sarebbe seguito due anni dopo l’EP “Devouring Deception”. Dopo l’uscita del mini, la lineup ha cominciato a sfaldarsi e ogni sei mesi eravamo sul palco con gente diversa. Con un’instabilità simile era troppo difficile per noi pensare di scrivere musica: ogni volta eravamo costretti a riprendere i vecchi brani, per provarli con la new entry del momento, nella speranza che presto le cose si sarebbero stabilizzate. Così non è stato e nel 2013 siamo entrati in una lunga fase di latenza: non volevamo ammettere che la band fosse ormai finita (io e Paolo Maniezzo eravamo gli unici superstiti) e ci ostinavamo a pensare che in qualche modo avremmo rimesso in piedi tutto. Anche quella volta abbiamo avuto ragione e l’ostinazione ci ha premiato se, nel 2016, siamo qui a presentare il secondo full “Ritual Theophagy”.

 

“RitualTheophagy”. I temi. Non pensate che i testi anti-religiosi, Diavolo, sacrifici, ecc., abbiano fatto il loro tempo. Oppure, che siano null’altro che un cliché obbligato per il metal oltranzista?

La seduzione del male è senza tempo. Esercita da sempre una fascinazione fortissima, un vero e proprio magnetismo occulto. Credo sia un tema inesauribile così come il suo corteo d’immagini e simboli. Non si tratta necessariamente del volersi inscrivere in una cornice estetica di genere (sebbene in parte sia anche così: non abbiamo mai voluto fare qualcosa di nuovo, ma solo e semplicemente death metal) ma del trovarvisi dentro per affinità.

 

“Ritual Theophagy”. La musica. Come nasce, nelle vostre menti? Sei tu il principale compositore, oppure lavorate in team?

Sono io a comporre solitamente, ma tutto il materiale che scrivo viene poi elaborato dalla band, nessuno escluso. L’arrangiamento è una fase molto complessa, nella quale tutti siamo coinvolti. Questo perché spesso, pur avendo composto i riff, non riesco ad avere una visione d’insieme soddisfacente oppure non mi accorgo di soluzioni che valorizzano quest’atmosfera o quel passaggio. Il contributo degli altri membri è decisivo per la messa a punto delle canzoni. Una volta raccolti suggerimenti e suggestioni, sono solito riprendere in mano il pezzo e ristrutturarlo completamente, lasciando poi a ciascun altro membro l’arrangiamento finale del proprio strumento.

 

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La rabbia. Se ne percepisce tantissima, in “Ritual Theophagy”. Sia nelle parole, sia nella musica. Come mai?

Perché siamo un fottuto gruppo death metal. Detesto quello che è diventata gran parte della musica estrema: ascolto dischi, guardo video, sfoglio booklet e penso «se fossi nato più tardi e avessi trovato questo tipo di death metal, avrei mai deciso di suonarlo?». Probabilmente no. Quando sei ragazzino cerchi qualcosa di potente, d’irreverente, anche di cattivo gusto e sempre politicamente scorretto. Ricordo che si metteva nello stereo una cassetta dei Deicide e sembrava di aver aperto le porte dell’Inferno! La croce rovesciata marchiata a fuoco sulla fronte di Glenn Benton, le lyrics dei Morbid Angel, le copertine stupende degli Obituary… era un impatto fortissimo! Ma soprattutto la musica. È la stessa che ascolto ancora oggi, dopo vent’anni. Oggi invece siamo circondati da star di YouTube che suonano sedute alla scrivania, da gruppi di ragazzini pettinati e in posa quasi dovessero finire sulla copertina di Vogue, da canzoni che rimangono per una settimana su Facebook, commentate da cuoricini e faccine che mandano baci. Questo non è metal. Quindi, tornando alla tua domanda, non chiedermi perché “Ritual Theophagy” sia così incazzato, chiediti piuttosto perché non lo siano altrettanto centinaia di dischi che continuano a uscire e a spacciarsi per death metal.

 

La vostra tecnica strumentale è elevatissima. Come siete riusciti ad arrivare a questi livelli? Provate spesso assieme?

Personalmente suono molto. Appena ho un momento libero, prendo la chitarra in mano. Suonavamo parecchio insieme all’epoca di “On the Inexistence”, poi sempre meno. Certo, ognuno di noi si esercita quotidianamente, in modo da ottimizzare il tempo delle prove insieme: era bello quando non si aveva molto a cui pensare e ci si poteva distruggere di birra in sala prove, suonando per ore!

 

In realtà sarebbe una domanda per Paolo Maniezzo, il cantante, ma anche tu contribuisci alle linee vocali, giusto? Come le elaborate? Come riuscite a gestire growling / streaming così estremi?

Solitamente, quando la canzone è pronta dal lato strumentale, Paolo inizia a improvvisarci sopra. Già in fase di composizione cerco di prevedere quali saranno le parti cantate naturalmente, ma cerco di lasciare i più ampi margini di movimento, sempre pronto a riarrangiare, modificare, ecc. Una volta che Paolo ha una bozza di cantato, scriviamo il testo su quella base e lo adattiamo alla musica. Fatto questo, cominciamo con l’arrangiamento dei backing vocals, che da sempre sono parte integrante della nostra musica. Questo è quello che succede oggi: all’epoca di “On the Inexistence” avevamo tutti un microfono in sala prove e se a qualcuno veniva in mente qualcosa durante l’esecuzione di un brano, non aveva che da cantare! Per questo forse i backing di quel disco sono così feroci: per la loro spontaneità.

 

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Una domanda tutta per te, invece. I riff. Li pensi e poi li suoni, oppure provi direttamente a tirarli giù dalla chitarra?

Dipende. Considera che ho un problema personale al limite del patologico con i riff. Fa lo stesso che li pensi o li tiri giù al momento: li devo modificare allo stremo. Solitamente di ogni riff scrivo dieci, quindici versioni. Magari cambia un niente ma continuamente devo fare e disfare quel che ho fatto, finché non trovo una forma che mi convince completamente. Questo non accade quasi mai e devo semplicemente smettere di riscrivere gli stessi riff per non farmi mandare affanculo dal resto della band!

 

Comatose Music. Il vostro contratto discografico prevede altri album, oltre a “Ritual Theophagy”? Siete supportati a dovere?

Comatose Music è un’etichetta fantastica e per noi è una famiglia. Il nostro contratto si esaurisce con “Ritual Theophagy” ma credo ne firmeremo un altro per il prossimo disco. Steve Green è per noi il boss e un fan, oltre che un amico. Nessuno ci ha supportati e ha creduto in noi eccetto lui negli anni del nostro stand-by: credo sia una delle principali ragioni per cui i Blasphemer esistano ancora.

 

È difficile riprodurre dal vivo la montagna di note qual è “Ritual Theophagy”? Come si riesce a far sì che non finisca tutto nel caos?

Esercizio e metronomo. So che è poco poetico ma è l’unico modo in cui si possa garantire una resa perfetta dal vivo. Proprio in questi giorni stiamo preparando (maniacalmente) la set-list che promuoverà live “Ritual Theophagy” e devo dire che siamo in splendida forma: non abbiamo mai suonato così bene!

 

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“Ritual Theophagy” dura soltanto ventisette minuti circa. Perché?

Perché no? Non componiamo a cottimo e se una canzone ci sembra finita, allora lo è. La durata dei brani è qualcosa di cui ci accorgiamo anche noi solo una volta che tutto è registrato. Spesso ci hanno chiesto perché i brani durino poco: la musica è talmente mercificata che si mette in relazione il prezzo d’acquisto con il minutaggio, ma non siamo dal salumiere perdio! «Tre minuti e cinque, che faccio signora, lascio?».

 

Esiste una scena italiana di brutal death metal, secondo te? O, al solito, bisogna prendere come riferimento l’estero?

In Italia ci sono dei punti di riferimento che fanno scuola anche all’estero ormai. Non siamo un paese di serie B, almeno non per quello che riguarda il brutal death metal! Abbiamo decine e decine di gruppi validissimi, che spaccano il culo ben oltre i confini nazionali. Tutto quello che ci resta da fare è supportarli.

 

A proposito, qual è secondo te la patria odierna del death metal? E perché?

Non saprei. Mi verrebbe da dire l’Europa, perché le cose più sensazionali che ho sentito negli ultimi anni non venivano dagli States bensì dal vecchio continente. In Europa poi ci sono i migliori festival e sempre in Europa c’è una varietà nel modo di fare metal che è stupefacente. 

 

Intervista a cura di Daniele D’Adamo