Hard Rock

Intervista Kadavar (Simon “Dragon” Bouteloup)

Di Davide Sciaky - 22 Novembre 2017 - 14:33
Intervista Kadavar (Simon “Dragon” Bouteloup)

Ciao Simon, come stai?

Benone, grazie!
Ci rimangono pochi concerti…va tutto bene.

“Rough Times” è uscito poco più di un mese fa; avete iniziato a suonare molte canzoni nuove fin da subito, come sta rispondendo il pubblico alla nuova musica?

Penso che ci sia una buona risposta, stiamo suonando, mi pare, cinque nuove canzoni: le prime due dell’album sono una martellata in faccia, subito all’inizio del concerto, quindi…sì, penso che stia andando bene con le nuove canzoni.

Come hai detto state suonando cinque canzoni nuove, metà del nuovo album, avete in programma di suonarne altre in futuro?

Ce n’è un’altra che volevamo suonare durante questo tour, potremmo inserirla negli ultimi show.
Abbiamo una playlist, cerchiamo di alternare la canzoni ogni sera, vedremo, magari una sesta…

Immagino che in fase di registrazione e di produzioni ascoltiate molte volte l’album, ascolti ancora la tua musica dopo che viene pubblicata o sei stufo dopo averla dovuta ascoltare così tante volte?

Penso che ci sia bisogno di una pausa, sì, decisamente, devi allontanartene un po’.
Ci vogliono, non so, magari tre-quattro settimane per me perché riesca ad ascoltarlo di nuovo.
Per il nostro batterista, Tiger, è anche peggio perché l’ha mixato, quindi ha passato davvero tanto tempo sull’album.

A cosa si riferiscono i “Rough Times” [N.D.R. “tempi duri” in inglese] del titolo?

Be’, si riferiscono alla vita in generale!

Si riferiscono alla situazione del mondo al giorno d’oggi, è un concetto che tutti possono capire, è anche un concetto “aperto”, tutti hanno passato dei momenti duri in qualche momento della loro vita, una giornata dura…

Quindi non si riferisce specificatamente alla situazione politica di oggi?

Lo fa, si riferisce anche a quello, ma allo stesso tempo l’album non parla solo di ciò, è un po’ più astratto nel senso che l’ascoltatore è libero di interpretarlo come preferisce.
Non vogliamo puntare una pistola alla tempia di qualcuno e dire, “Devi interpretare l’album in questo modo”.

Avete semplicemente lasciato libertà d’interpretazione all’ascoltatore.

Esatto, questo è ciò che è interessante dell’arte, lasciare che l’ascoltatore, o che le persone che stanno osservando un dipinto, quello che vuoi, possano interpretarlo come vogliono.

Questa “durezza della vita” è qualcosa di cui parlate in più canzoni, è una sorta di concept album, o è solo la title-track che ne parla?

Non abbiamo pianificato un concept album, ma è vero che siamo partiti dalla copertina, poi il titolo – ispirato dalla copertina – come tema principale, poi sono arrivate le canzoni che hanno cercato di ritornare sul tema.
Quindi possiamo chiamarlo concept in quel senso, ma non è un concept album come [“Histoire de] Melody Nelson” di [Serge] Gainsbourg.

Questa cosa della copertina è piuttosto inusuale, penso, di solito quella è una delle ultime cose di cui una band si preoccupa quando lavora ad un album.

È vero, voglio dire, è stato un processo diverso di scrittura confrontandolo con gli album precedenti, l’abbiamo usato come punto di partenza.
Per “Berlin” avevamo già delle canzoni che suonavamo un anno prima, quelle sono state il punto di partenza per quell’album.

Questa volta non avevamo niente, nessun materiale, c’era magari qualche idea, ma nessuna canzone pronta.
La cosa della copertina è stata un modo di avere un punto di partenza, direi.

Come funziona il songwriting per voi, scrivete anche mentre siete in tour?

Puoi avere qualche idea mentre sei in tour e metterla da parte, ma per questo album è successo tutto mentre…abbiamo costruito il nostro studio all’inizio dell’anno, poi subito dopo dovevamo registrare l’album quindi, davvero, abbiamo lavorato solo lì.
E’ stato un processo rapido, abbiamo cambiato un po’ le cose rispetto a prima nel senso che è più un processo individuale ora, ci sono meno canzoni che scriviamo tutti insieme, ci sono magari tre o quattro canzoni così, per il resto era, “Okay, uno ha un’idea, la sviluppa e porta in studio la canzone intera”.

Facendo un confronto con i dischi precedenti la musica di “Rough Times” è più pesante, è una progressione naturale o avete volutamente spinto in questa direzione per riflettere i temi dei testi?

Penso che sia una progressione naturale, sai, quando suoniamo dal vivo tendiamo a spingere sul lato della pesantezza e anche le nostre influenze, i dischi che ascoltiamo [sono pesanti], penso che sia un’evoluzione normale per la band.
Devi sempre sperimentare, quindi questo è stato un modo di spingere sui nostri limiti.

Hai momenti più duri, ma hai anche momenti più leggeri, è più come se avessimo spinto i nostri limiti in entrambe le direzioni per non ristagnare nella musica che abbiamo già creato in passato.

Negli ultimi anni abbiamo visto la crescita di quello che potremmo definire una “New Wave of Old Fashioned Rock”, una “nuova ondata di Rock vecchio stile”, con tante band come voi, Blues Pills, Graveyard e tanti altri che propongono un Rock che sembra essere uscito direttamente dagli anni ’70.

Secondo te perché si è sviluppata tanto questa corrente, questo ritorno al passato?

Perché c’è gente che vuole sentire questo tipo di musica, immagino.
Perché è successo…probabilmente c’era una mancanza di qualcos’altro, quindi si è liberato uno spazio per questo genere, una nuova generazione, dei nuovi ascoltatori.

Probabilmente è stato piazzato sul mercato in questo modo.

È stato circa 10 anni fa, nel 2005, 2006, che la gente ha cominciato a chiamarlo “retro”, prima lo chiamavano semplicemente Rock.
È stato qualcosa tipo, “Ehi guardate questa nuova musica, è Retro Rock” [ride].

Ma penso che mancasse qualcosa, che ci fosse un vuoto da riempire.

Quali sono le tue band preferite tra quelle di questa corrente?

Siamo andati in tour con gli Horisont nel 2015, dei grandi, una band fantastica.
Questi ragazzi, le loro canzoni, il modo in cui suonano, la loro amicizia, la loro relazione con la musica…sono fantastici.

I Death Valley, sono in tour con noi adesso, anche loro hanno questa cosa, li guardi e subito ti viene da dire, “Wow!”.
Loro vengono magari da un’angolazione diversa del Rock ed è davvero interessante.

Abbiamo parlato della vostra evoluzione come band, di come vi siate spinti oltre i vostri limiti; dove vi vedi nel futuro, pensi che il prossimo album sarà ancora più pesante?

È sempre difficile diventare più duri ma, sì, trovare un modo di diventare più duri, quello è un obiettivo.
In un modo diverso, non è perché abbassi la tonalità delle chitarre che diventi più pesante.

Sì, trovare un modo di scrivere canzoni più dure e anche, dato che abbiamo i due estremi, canzoni più leggere, ci dev’essere un equilibrio, come abbiamo fatto in questo album.
Spingerci oltre i nostri limiti, quello è l’obiettivo.

Quindi canzoni più pesanti, da una parte, e più leggere, dall’altra.

Esatto, cercando di mantenere l’equilibrio tra i due lati, e cercando di non ripetere lo stesso album più e più volte, è una mancanza di rispetto per i fan e per noi stessi in quanto musicisti, non so se posso chiamarci artisti, ma sicuramente in quanto musicisti.

Dragon, Lupus e Tiger: avete tutti dei soprannomi (o nomi d’arte), come mai?

È una cosa che è cominciata prima che entrassi nella band, penso che il vecchio bassista venisse chiamato Mammut, quindi è partito da lì.
Gli altri due membri si chiamano entrambi Christoph, quindi se urli “Christoph!” vengono entrambi [ride].
È stato un mix di questo e del fatto che il vecchio bassista veniva chiamato Mammut.

Quindi non sono solo nomi d’arte, usate questi soprannomi anche tra di voi?

Non il mio, ma il loro certamente!
Li chiamo Tiger e Lupus, sì!
Per me no, normalmente dico, “Chiamatemi semplicemente Simon”.

Visto che sei entrato nella band dopo che questa cosa dei soprannomi era già nata, avete avuto una conversazione tipo, “Okay, sei nella band…ora come vuoi essere chiamato?”

Sì, sì! [Ride]
Io non volevo neanche un soprannome, ne abbiamo parlato per un po’ e siamo finiti a scegliere Dragon perché sono quello che fuma di più nella band [ride] quindi ho detto, “Sì, Dragon, mi piace”.

Questa era la mia ultima domanda, ti lascio questo spazio finale per salutare i nostri lettori.

Ciao ragazzi, spero che vi godiate l’intervista e il nostro ultimo album.
Spero di vedervi preso ad un nostro concerto.

Grazie, Simon.

Grazie!

 

Davide Sciaky