Recensione: Anomie

Di Daniele D'Adamo - 13 Febbraio 2017 - 20:47
Anomie
Band: Violet Cold
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2017
Nazione:
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92

Il cielo è stanco,
come mani che non sanno più stringere,
lascia scivolare le stelle verso i pianeti.

Il miracolo del post-metal raggiunge gli angoli più sconfinati del pianeta, come Baku, capitale dell’Azerbaijan. Lì, in territori di lingua turca, vive Emin Guliyev, prolifico musicista che ha fatto di quella sfumatura del post-metal chiamata blackgaze, cioè fusione fra black metal e shoegaze, una vera e propria ragione di vita. Di vita, sì, poiché donare la propria esistenza a un’one-man band, Violet Cold, che in pochi anni ha generato oltre trenta produzioni discografiche, fra le quali l’ultimo full-length “Anomie”, significa immergersi completamente nella musica, fondere la propria mente con le sinusoidi punteggiate di note che arabescano i righi musicali. Avvolgere la musica stessa per farsi avvolgere da lei.

‘Anomie’. Fusa alle poderose sfuriate dei blast-beats, alla potenza tremenda del basso, ai taglienti, acuti tremuli e ai rigidi riff della chitarra, Emin Guliyev canta, canta poesia con il suo screaming disperato. Melodie incredibili, meravigliose, sublimi, che si arrampicano verso la volta celeste. Quasi a volerla dissuadere dall’arrendersi al dolore, alla sofferenza, agli amori perduti, mai ritrovati. Sentimenti che, come forme impalpabili d’elio, ascendono irresistibilmente a cercare lo zenith (dall’arabo samt al-ra’s), lasciandosi trasportare altrove, tuttavia, dai moti casuali dell’atmosfera. Indefinitamente. La meravigliosa musica dei Violet Cold aiuta, come un miracolo, a trattenere tutte queste emozioni, tutto lo struggimento per i rapimenti rimasti solitari, tutta l’immensità contenuta a fatica dal cuore, dalla mente, dall’anima. L’incessante drumming, che non conosce interruzioni nella sua furibonda continuità, è l’elemento definitivo per indurre lo stato di trance e, quindi, visitare a occhi aperti l’universo onirico. Da svegli, non da indifesi corpi adagiati, vinti dalla stanchezza di vivere.

‘She Spoke of Her Devastation’. Il morbido, sfuggente incipit non deve trarre in inganno: il male di vivere esplode in tutto il suo mistero. La chitarra spezza l’incantesimo e riporta l’attenzione sull’imperscrutabilità dei movimenti emotivi che, come il mare agitato, spruzzano nell’etere gocce di languida melanconia. Il rapimento, inteso come attimo in cui l’uomo assume la propria consapevolezza dell’essere e della totalizzante, indifesa attrazione per qualcosa, è assoluto. Rapimento per la musica. Mirabile arte che non inganna, non tradisce. Emin Guliyev è conscio di ciò, poiché anche lui è stato catturato da Euterpe: il suo basso, come sfiorato dal cuore, disegna linee dall’armonia commovente, dal suono struggente. La vita muore. La doppia cassa, che dà senso alla potenza del ritmo, sottolinea tale trapasso ma, attraverso le opere che mirano alla bellezza del mondo essa, la vita, è destinata a valicare i limiti dello spazio e del tempo.

Questo si percepisce in ‘Lovegaze’, che ribollisce pura passione, incontaminata. Maestoso inno dell’amore per sempre che Emin Guliyev prova per il *-gaze. Amore che si compie unendo female vocals a tremende accelerazioni dirette all’infinitamente grande, all’infinitamente piccolo. Per percorrere tutte le stazioni di un’immaginaria strada ferrata che congiunge atomi, forse pure quark, e supernovæ.

E l’amore, il rapimento, la consapevolezza e la lucidità per ciò che il cuore è in grado di provare ma che la mente, a volte, razionale, si rifiuta di accettare, esplode come un big bang in ‘My Journey to Your Space’. Altro viaggio, altra voce femminile narrante che apre immediatamente le porte dell’Io, come se il suo parlare s’accordasse misteriosamente alle corde dell’anima. Lo squartamento spirituale serve a Emin Guliyev per compiere il suo percorso, attraverso la musica – qui dura, violenta, aggressiva, massiccia e veloce – entro i meandri dei cervelli di altri esseri umani. Li sonda, li sconquassa e li rigenera, affinché essere possano essere pronti a guardare il bello. Una missione che non è dato di sapere quanto e quando riuscirà nel suo intento. Non è nodimeno ciò, che è davvero importante. È vitale che ci sia qualcuno che osi, che ci provi. Magari, come lui, Emin Guliyev, sperduto nelle vacue nebbie di un underground lontano anni-luce ove si muovono le più note formazione di metal e, di conseguenza, di black metal.

E la visionarietà, intensa, in ‘Violet Girl’, ove la candida voce femminile canta la sua poesia accoccolata sulle note di stupendi arpeggi di chitarra. Poi, la disperazione dello screaming sofferto di Emin Guliyev forma una mirabile antitesi con l’eterea donna dell’Islam. Qui, il dolce, morbido, languido riffare della sei corde incontra indimenticabili tappeti di celestiali tastiere. Le linee vocali sono quelle del capitano di uno dei più commoventi viaggi nel sogno. L’armoniosità della song induce turbamenti assoluti, nell’anima. Si chiudono gli occhi, il pensiero rallenta, si fa rapire. Ancora una volta, un rapimento. Ma è nuovamente per la musica e, questo rapimento, è per sempre. Lacrime solcano le guance, quando l’etnico strumento a fiato si avvolge come un amante alle linee del caldissimo basso. Capolavoro assoluto. Da piangere. Da piangere. Da piangere… per provar felicità.

Amori incompiuti, amori non corrisposti, amori perduti, amori per sempre. Amore per la bellezza. La bellezza delle cose di tutti i giorni, che la Natura elargisce a piene mani ma che l’Uomo non sa vedere. Allora, bisogna compiere abluzioni purificatrici nell’incredibile suite finale, ‘No Escape from Dreamland’. No, non ci si può arrendere. Non si deve fuggire dalla Terra dei Sogni. Non si non può accettare un rapimento infausto senza lottare, senza combattere, senza provare e riprovare. La vita regala misteri, attimi di sublime bellezza, istanti di abissale malessere. Ma non bisogna perdere il focus, non bisogna dimenticare di cercare con ostinazione tale bellezza. Che è salvezza.

La genialità di Emin Guliyev e del suo mirabolante “Anomie” son lì, a portata di mano, a portata di tutti, per aiutare chi soffre a rivedere le stelle, a credere ancora e sempre nell’amore, nello struggimento dell’anima, nella bellezza delle cose.

Lì.

Daniele D’Adamo

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