Recensione: Панихида

Di Matteo Orru - 3 Giugno 2019 - 16:12

E’ possibile essere sulla bocca di tutti i metallari del mondo, intraprendere tour mondiali da headliner, presenziare festival su festival e affrontare uno split stile Rhapsody dopo solo un paio d’anni dalla nascita della band e malapena un disco sul groppone? Evidentemente nell’era di internet, dove l’immagine conta più del contenuto, sì.

Veri Batushka? Falsi Batushka? Chi è il vero padre spirituale (Il termine Батюшка, anche usato in modo intercambiabile con Baciuszka traslitterazione in lingua polacca che significa padre, una guida spirituale)?

Le varie beghe legali, il marketing, le strategie commerciali, le simpatie, antipatie, chi ha ragione di cosa, favoritismi e quant’altro a noi non interessano. Qui siamo su Truemetal, pertanto la cosa più idonea da fare è lasciar parlare la musica nera contenuta nel disco, per le altre cose ci penseranno i diretti interessati per mezzo di avvocati, picchiandosi per strada come gang in un bassofondo newyorkese oppure in un duello stile Ok Corral.

Di sicuro tutto il caos mediatico creato da una band che ha uno status poco più che underground quasi superiore alle faide Gillan-Blackmore, non mette in buona luce un disco, anzi, dei dischi di imminente uscita creando tuttavia, pur senza farlo apposta, dei pregiudizi che possono nascere e degli schieramenti a favore di uno o l’altro.

Cercheremo pertanto di essere brevi senza argomentare le vicende che stanno assumendo sempre più un carattere quasi di commedia sfociante sul comico e trash di cattivo gusto rendendo non facile il capire quale sia una band, o quale sia un’altra.

In queste righe insanguinate e dal profumo di incenso affronteremo la creatura del leader compositivo e mastermind della band Krzysztof Drabikowski che, come un fulmine a ciel sereno esordisce prima della band gemella lasciando quasi spiazzati noi addetti ai lavori così come i fan di tutto l’emisfero nero.

Panihida”, questo il titolo del platter a nostre mani, oppure “Панихида” in cirillico, oppure “Memorial” se venisse tradotto in inglese, si presenta con una bella cover art che riprende pedissequamente la copertina del fortunato Liturgiya ma con tratti più elementari, dipinta come se fosse una copia rozza e primitiva di quel precedente disegno, meno elegante ma più misteriosa, un antenato forse a indicare come il disco possa essere la vera e propria essenza di quella band che scrisse il debut album con differenze di base che fungono da indizi già fondamentali per la fruizione di questo nuovo capitolo della saga ecclesiastica.

Le  stesse lacrime insanguinate riportate come due strisce rosso amaranto scalfite in quell’immagine da due semplici e artigianali strisciate di vernice richiamano l’occulto ma anche la sofferenza e possono fungere da metafora circa la divisione inevitabile della band e tutte le problematiche che ne ha generato.

Una volta entrati nella sagrestia le candele che ci abbagliano come dei flash nei cupi atri della cattedrale, l’odore della cera incandescente che si mescola misticamente col profumo acre dell’incenso bruciato faranno da sfondo costante durante la durata del disco.

Le otto tracce chiamate semplicemente “Песнь”, ossia canzone, sono un viaggio nei meandri della mente malata dell’artista che mette subito in luce chi fu il vero compositore del disco di debutto della band; i riff claustrofobici che spaziano dal death al black conservano tutti gli stilemi del genere, dal tremolo più folle ai palm mute pesantissimi su una otto corde, passando dai blast beat ai tempi più rallentati al limite del doom senza mai dimenticarci il lato che ha reso più caratteristica la band, i canti liturgici tradizionali della chiesa ortodossa.

 “Gli inni di Dio sono più metal di qualsiasi musica satanica black metal là fuori”, gridò qualcuno mentre il buon Drabikowski ascoltava musica su YouTube, forse infastidito dal volume della stessa, e da lì nacque il progetto che si è materializzato per la seconda volta nel nostro lucente impianto stereo pronto a essere pompato a tutto volume.

Панихида è un disco che riporta connotati più underground rispetto al predecessore, primo indizio che viene colto dalla copertina rudimentale del disco, sia per quanto riguarda le composizioni, meno elaborate (ma non meno ricercate), che per quanto riguarda la produzione (uno dei punti deboli del disco); un passo indietro probabilmente voluto e creato ad hoc per questo che vuole rappresentare, in un modo o nell’altro, un nuovo inizio.

E come ogni nuovo inizio giustamente non tutto può andare per il verso giusto, o meglio, si traccia un sentiero, si fanno i bordi, il massetto, si asfalta e poi il tutto cresce ai lati di questa strada ben segnata; in pratica vengono messe le basi per creare un gran disco cosa che Panihida non è; ma al contempo non si tratta neppure di un passo falso totale.

Probabilmente, nella mente dell’artista, la volontà di fare un passo indietro era forte; la volontà di uscire da quella creatura che era diventata al 90% di marketing e solo il restante 10% musica che non faceva più per lui. Con Панихида questo passo indietro è stato davvero notevole, un disco che dalla prima all’ultima traccia suona underground come un vero disco di black metal deve suonare, sporco, rozzo e cattivo.

Tuttavia capita spesso e volentieri di avere un milione di idee ma nel porle in essere e sistemandole non si riesce a tirare fuori una strategia vincente. Questo, a nostro parere, è il risultato del disco in questione: tanti bei riff, belle atmosfere occulte e mistiche, tanta carne al fuoco che in svariati casi non è stata collocata al posto giusto nel momento giusto creando una forte e amara dissonanza all’interno di tutto il lavoro che alternerà per tutta la sua durata momenti di spessore artistico e di notevole ispirazione, soprattutto strumentale, ad altri che risultano caotici, arrangiati in maniera quasi elementare e che creano momenti di difficoltà comprensiva del pezzo stesso, aggravato il tutto dalla produzione rudimentale che crea ulteriore confusione soprattutto per quanto concerne i pezzi più veloci.

Innegabile la bellezza dei primi due pezzi del platter con la prima song, dalla struttura tipica di una atmospheric blackened death metal song, lenta ed evocativa col suo incedere gotico al limite del dark con i canti liturgici a sommergerci nella loro atmosfera nera, che fa da contraltare alla seconda canzone, una vera e propria bordata che ci accoglie con una sfuriata di doppia cassa e scream smorzati sino a giungere alla bellissima variante centrale di rara eleganza ed epicità che riesce nel suo intento a trasportarci mentalmente in un mondo parallelo e dannato grazie alle atmosfere malate sprigionate dal nostro fiero artista.

La terza traccia è un death ragionato e oscuro con influenze oltremodo doom goticheggianti, dove finalmente lo scream riesce a trovare quella posizione da protagonista che giustamente dovrebbe avere in un album simile, senza essere sommerso dai costanti cori che martellano insistentemente per tutto il platter. La lentezza estenuante viene interrotta da dei tempi in blast che fanno scricchiolare la struttura, come se fossero messi lì un pò a caso, dando all’arrangiamento un senso di forzatura ma che non intacca la bellezza di questa song.

Una partenza col botto che tuttavia è destinata a rallentare inesorabilmente con la quarta traccia in scaletta. Песнь 4 è una furia di black metal melodico che sembra voglia fare un ritorno alla scena svedese negli anni novanta ma il costante rallentare e accelerare fa sì che della traccia rimanga in testa solo un grande senso di confusione che va a sfumare nella Песнь 5 dove a fare da padrone inizialmente è una mistica atmosfera rarefatta e raffinata per poi lasciare spazio al blast inferocito della batteria e ai tempi più veloci che pure in questo caso paiono forzati e creano una difficoltà comprensiva non da poco dovuta anche alla costante presenza dei cori che sommergono letteralmente la parte strumentale.

L’effetto copia incolla circa la struttura dei brani è ciò che più permea la parte centrale del disco che assume connotati oltre che confusionari pure fastidiosi rendendo quasi impossibile il trattenersi dalla tentazione di schiacciare il tasto skip per passare alla traccia successiva, così anche Песнь 6 sembra scomparire in un vortice di miseria e rabbia lasciando poco e nulla nella testa dell’ascoltatore, un brano che in scaletta insieme alla precedente se non fosse stato presente probabilmente ne avrebbe solo che giovato l’economia del disco e la sua fruibilità.

Панихидa  ha una tendenza incredibilmente cruda, punitiva e malinconica che permane per gran parte della durata dovuto ai riff ciclici e una produzione scarna che invece di avvalorarne la sua genuinità e intimità affossa la resa sonora che in svariati momenti del disco diventa addirittura un caos sonoro di difficilissima fruizione vista la quantità di arrangiamenti presenti.

Di certo la parola Batushka viene irreversibilmente collegata a una musica estrema dove i cori liturgici fan da protagonisti, ma in questo caso più che abbellire e rendere unico il sound della band finiscono con il soffocare ogni singola nota e solo in alcuni episodi ci sentiamo di dire che questo tipo di soluzione sia stata azzeccata.

La loro presenza, risultata sino a oggi fondamentale nell’economia della band, riesce a dare il valore aggiunto nelle prime due tracce e nell’ultima, per il resto del disco copre letteralmente qualsiasi arrangiamento facendo perdere per strada parti strumentali più dirette in favore del coro da chiesa, sacrificandone l’impatto che questo genere di musica deve avere.

Discorso opposto vale per la voce solista che è data dai tipici scream black metal; in merito a questo il mastermind, in un’intervista rilasciata confida che: “Nel nuovo album Panihida ho suonato io stesso le parti di tutti gli strumenti e ho fatto delle parti vocali. Ho anche invitato i miei amici più fidati a prenderne parte come vocalist, quindi la voce appartiene a diverse persone, anche se la mia voce appare anche lì”.

A conti fatti oltre essere penalizzata dalla stessa produzione, risultando decisamente bassa e in secondo piano rispetto ai cori e a tutti gli altri strumenti, se fosse stata utilizzata maggiormente a discapito dei cori stessi probabilmente staremo parlando di un disco più compatto e organico ma che, in questo caso, dà la sensazione di perdersi lungo il suo cammino.

L’ascolto si riprende in parte con la settima traccia in scaletta per poi concludersi in bellezza con la Песнь 8, una vera bordata di black metal vecchia scuola norvegese che incontra quella svedese in un connubio malefico riuscito alla perfezione e che ci fa dimenticare per un attimo una fiacca parte centrale del disco grazie al suo impatto sonoro ed emotivo. I canti liturgici finalmente lavorano insieme alle grida lancinanti black, purtroppo sempre troppo basse come volume anche se l’arrangiamento, in questo caso, è quello giusto, donando al disco un finale agrodolce.

Panihida può essere definito un onesto disco di blackened death metal sperimentale e si rivela essere assolutamente vincente per alcuni versi ma disarmante e confusionario per altri riportando i Batushka, senza nulla togliere alle capacità di Krzysztof Drabikowski che si rivela comunque un’artista eclettico e originale, sulla terra degli umani sottolineando che senza le operazioni di marketing ben strutturate e una buona trovata scenica, oggi sarebbero in un limbo nient’altro che underground sovrastati da migliaia di altre band che il metal estremo lo suonano molto meglio.

Questo disco oggettivamente parlando risulta essere positivo a metà con tre pezzi decisamente ben riusciti, dirompenti e devastanti nel loro incedere (dove la matrice death è più presente) anche se penalizzati da una produzione mediocre, ma con la restante parte delle composizioni che convincono a metà o addirittura risultano essere fastidiose circa la loro ripetitività strumentale che per quanto riguarda gli arrangiamenti vocali.

Di sicuro, considerando questo platter una sorta di nuovo inizio, le premesse per un futuro positivo ci sono, ma al contempo deve servire da monito circa quanto oggi sia potente il fattore comunicazione che, grazie all’uso di internet e dei media in generale, sta prendendo il sopravvento facendo perdere per strada quel qualcosa che è sempre più difficile trovare in una band: la qualità espressa in musica.

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