Recensione: A Caress of the Void

Di Giuseppe Abazia - 15 Gennaio 2008 - 0:00
A Caress of the Void
Band: Evoken
Etichetta:
Genere:
Anno: 2007
Nazione:
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91

Ecco, gli Evoken l’hanno rifatto. Quarto full-length, quarto capolavoro. E stavolta il nuovo disco non si è nemmeno fatto attendere troppo: due anni distanziano A Caress of the Void dal precedente Antithesis of Light (mentre ben quattro anni separavano quest’ultimo da Quietus). Il tempo passa, nuove leve si affacciano di volta in volta nel panorama musicale doom, nuove sperimentazioni e contaminazioni prendono piede, ma gli Evoken sono sempre lì: granitici, inossidabili, la band di John Paradiso (voce, chitarra), Nick Orlando (chitarra) e Vince Verkay (batteria) rappresenta lo zoccolo più duro del death-doom vecchia maniera, un punto fermo insostituibile per la scena, e – come dimostratoci anche stavolta – una garanzia di qualità. Una line-up rinnovata, inoltre, affianca i tre storici componenti: Craig Pillard al basso, e la più recente new-entry, Don Zaros alle tastiere.

Senza perdere tempo in “convenevoli” a descrivere ancora una volta lo stile degli Evoken (argomento già sviscerato a sufficienza nelle recensioni di Embrace the Emptiness e Quietus), credo sia più produttivo analizzare, invece, in cosa A Caress of the Void si differenzia dai precedenti album, e cosa porta di nuovo. Iniziamo col dire che grossi stravolgimenti non ce ne sono stati: sempre di death-doom si parla, e il sound inconfondibile degli Evoken è rimasto quello di sempre. Tuttavia, piccoli cambiamenti ci sono, e sebbene possano non essere evidenti all’orecchio dell’ascoltatore occasionale, saltano subito all’attenzione di chi mastica pane e doom e ha sempre seguito l’evoluzione di questo gruppo.

Shades of Night Descending (l’EP di debutto) era un disco di buon death-doom dalle tinte funeral, forse ancora acerbo ma già foriero di grandi potenzialità; Embrace the Emptiness segnava il consolidarsi del tipico sound degli Evoken, dava più spazio alle tastiere e all’atmosfera, mettendo parzialmente in secondo piano la violenza ostentata nell’EP; Quietus si impose immediatamente come una magnifica opera doom, il loro capolavoro e una delle vette più alte toccate da questo genere, col suo mix perfettamente equilibrato di sferzate di aggressività, rallentamenti funerei, orchestrazioni maestose di tastiere e viola, e atmosfere solenni; Antithesis of Light sanciva, invece, il ritorno alla brutale pesantezza retaggio dei Disembowelment, ma senza disdegnare sezioni più melodiche dove gli inserti tastieristici annichilivano l’ascoltatore con echi catacombali e macabre sinfonie. Cosa ci propone, invece, A Caress of the Void?

A Caress of the Void è un album difficile. Certo, gli Evoken non sono mai stati un gruppo di facile ascolto, ma la loro ultima fatica sposta ancora più in là i paletti della pesantezza sonora e dell’inaccessibilità musicale. Là dove Quietus ci proponeva passaggi di viola e aperture melodiche di suggestiva bellezza e Antithesis of Light ci galvanizzava con improvvise accelerazioni, A Caress of the Void ci schiaccia sotto un valanga di pesantezza che lascia poco spazio al dinamismo. Per la prima volta le influenze funeral da sempre presenti nella musica degli Evoken si fanno quasi preponderanti, avvolgono lo spettro delle sfaccettature del loro sound, e lo sovrastano come un macigno. Forse ancora più opprimenti che in passato, gli Evoken ci presentano un album chitarristico, che mette leggermente in secondo piano le tastiere (e dunque lascia meno spazio alle aperture melodiche) in favore di una monolitica successione di riff dalla pesantezza inaudita; qui a creare la tipica atmosfera evokeniana intervengono bellissimi arpeggi puliti che non di rado s’intrecciano con le chitarre distorte creando un contrasto molto riuscito. La maggiore pesantezza dell’album è evidenziata anche dalla produzione: messa da parte la riecheggiante cavernosità di Antithesis of Light, ora la produzione è più compatta, più pesante, dà maggiore risalto alle chitarre e dona alla batteria un suono più asciutto e pieno. Immutata, invece, la voce di John Paradiso: i suoi inconfondibili ruggiti, ieri come oggi, ci accompagnano in questo viaggio infernale privo di spiragli di luce, e la sua voce pulita ci guida attraverso i frangenti più calmi di questo oceano di oscurità.

La title-track, coi suoi quasi 9 minuti, funge da perfetta introduzione a ciò che ci aspetta lungo l’ascolto dell’album. Raccoglie in sè tutti gli elementi che costituiscono il sound degli Evoken, e ci permette di iniziare ad assaporare le novità sopracitate, con la sua pesantezza, il suo break acustico centrale, e le sue tastiere d’atmosfera. Mare Erythraeum invece è una traccia insolita, una strumentale di 7 minuti di grande atmosfera giocata principalmente sulle chitarre e sull’alternarsi di distorsioni e arpeggi, il tutto sostenuto da un solido tappeto di tastiere; un esperimento riuscito e interessante, che scorre fluido e senza annoiare. La terza traccia, Of Purest Absolution, è un tipico esempio di come un’ottima canzone death-doom andrebbe costruita, e si distingue per un ritmo particolarmente coinvolgente; Astray in Eternal Night, invece, ha una vena più atmosferica (come evidenziato da una consistente presenza di parti recitate in voce pulita) e un incedere più lento. Ma il picco di pesantezza e lentezza viene toccato da Descend the Lifeless Womb, una canzone dai forti toni funeral che ci trascina giù col suo crescendo di drammaticità. Suffer a Martyr’s Trial (Procession at Dusk), poi, è un tripudio di arpeggi e di tastiere, ed è probabilmente la canzone più d’atmosfera del disco. Ad Orogeny l’onore di chiudere il sipario, compito assolto con la stessa maestria che contraddistingue l’intero album.

Siamo quindi alle considerazioni finali. Come si pone, A Caress of the Void, rispetto al resto della loro discografia? Certo, forse non avrà la freschezza di Embrace the Emptiness. Quietus, dal canto suo, è ancora lì a regnare incontrastato sul suo trono, con Antithesis of Light lì vicino a fargli da degno compare. Ma l’errore probabilmente sarebbe cercare di determinare se A Caress of the Void sia meglio o peggio dei precedenti album, una comparazione tutto sommato inutile perchè la differenza non sta nel livello qualitativo, che è sempre altissimo. Ancora, un altro errore potrebbe essere quello di pretendere novità eclatanti da questo loro nuovo disco; gli Evoken non sono questo, il doom non è questo. A Caress of the Void va assaporato nelle tante piccole sfaccettature che ne contraddistinguono il sound, va apprezzato per l’approccio che il gruppo stavolta ha seguito nel forgiare la sua musica: più pesante, più annichilente, più oppressivo, A Caress of the Void è un disco maturo che aggiunge un altro mattone al muro di dolore che gli Evoken stanno costruendo ormai da più di 10 anni. C’è poco altro che si può chiedere da un disco doom: quella macchina sforna-capolavori che risponde al nome di Evoken ne ha da poco creato un altro, a noi non resta che godere di quest’ennesima testimonianza della loro maestria nel plasmare a proprio piacimento una materia a cui non è facile dare una forma così perfetta, ma che nelle loro mani diventa creta che facilmente si piega al loro volere.

Giuseppe Abazia

Tracklist:
1 – A Caress of the Void (08:52)
2 – Mare Erythraeum (07:19)
3 – Of Purest Absolution (07:46)
4 – Astray in Eternal Night (08:37)
5 – Descend the Lifeless Womb (09:12)
6 – Suffer a Martyr’s Trial (Procession at Dusk) (13:46)
7 – Orogeny (06:06)

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