Recensione: A Dear Diary

Di Fabio Vellata - 29 Maggio 2014 - 0:24
A Dear Diary
Etichetta:
Genere: Stoner 
Anno: 2014
Nazione:
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68

Con un moniker che, una volta tanto, merita una segnalazione per l’originalità, gli Avvocati del Diavolo raggiungono con “A Dear Diary” (il cui acronimo, sornionamente, può essere utilizzato anche per il nome della band) il rispettabile traguardo del secondo album in carriera, seguito del debutto “Neoevo” edito nel corso del 2010.

Quello degli ADD è un hard rock cupo e plumbeo, dalle fortissime connotazioni alternative, in cui convivono evidenti influenze post grunge e metal, mescolate ad un riffing profondo di stampo sabbathiano e ad atmosfere per lo più claustrofobiche.
Solo da lontano ed in modo decisamente improprio le sfumature potrebbero definirsi vicine allo stoner dei seminali Kyuss o delle loro emanazioni Slo Burn e Fu Manchu. Spesso decadenti e dotate di un alone di drammaticità che pervade l’album per l’intera durata, le ambientazioni descritte dal trio di Savona non hanno, in effetti, molto a che vedere con i panorami desertici ben impressi nell’iconografia del genere codificato dai Fatso Jeston e dagli stessi Kyuss, prediligendo un approccio meno psichedelico, decisamente più grungy e seventies.
Le chitarre ribassate e le cadenze lente non effondono sensazioni “stordite” da colpo di sole, quanto piuttosto un vero e proprio effetto soffocante unito ad un’idea di oppressione inesorabile.
Siamo insomma, al passo successivo, quello che travalica lo stoner e sconfina nell’asfissiante fanghiglia dello “sludge”.

Molto interessante e parecchio consono in tal senso, il concept scelto per la rappresentazione scenografica del disco. Un mondo ai confini della fiction horror in cui morti viventi imperversano per le strade, attanagliando il protagonista della vicenda in una sorta di filosofica e surreale disperazione, i cui pensieri vengono consegnati ad un diario scritto a mano. Proprio come il booklet dell’album, ideato graficamente in modo da riprendere l’immagine di una sorta di diario autografo.

Ovvia e finanche scontata, la necessaria predisposizione ad un genere che per contratto si manifesta come parecchio pesantuccio ed enigmatico, lontano dal concetto di melodia leggera ed immediata: nulla cioè, che si predisponga come “facile” e capace di colpire al primo passaggio.
Le cadenze “circolari” di “Lumberjackass” sono, ad esempio, un viaggio sulfureo nei suoni che pendono verso i riff cari ai Black Sabbath, seguiti poi da una narrazione che allinea qualcosa dei Foo Fighters con sprazzi di Queens Of The Stone Age e Corrosion Of Conformity, definendo un taglio stilistico “chiuso”, scuro e  plumbeo che si dimostrerà omogeneo e diffuso sull’intera durata del disco.

Suoni discretamente potenti ed una voce – quella del singer Larry – che compie molto bene il proprio dovere, non mettono però al riparo la band da qualche limite ancora evidente.
Si sa, il genere scelto desidera proprio porsi all’attenzione nella forma di un riffing solido e di melodie mai troppo semplici, supportate da ritornelli che cercano di scardinare l’attenzione ripetendosi più volte. Ci pare tuttavia, che la staticità sia in qualche caso eccessiva e conduca in buona misura ad una latente percezione di monotonia che, se da un lato è rischio calcolato e quasi voluto, dall’altro “ingessa” la proposta condizionandone la fruibilità di massima.

Pezzi come “Straightjacket” e “Thunderbird Lover” dimostrano la presenza di buone idee nel groove avvolgente ed in qualche modo dinamico. Un progetto che tuttavia, perde colpi con il procedere dei minuti, arrivando sul finire dei brani stessi con il fiato corto.
Un’idea di fissa ripetitività che si alimenta ancor più con “A definitive Excuse” e “Fireflies”, coppia di tracce che, purtroppo, a fronte di un’indiscutibile bravura con gli strumenti, rischiano davvero di procurare qualche sbadiglio di troppo.
Se in ogni modo, qualcosa di davvero buono c’è in questo “A Dear Diary”, va ricercato nelle battute finali. Con “After The Doomsday” la band dimostra, infatti, di sapersi muoversi in modo più schietto, mettendo insieme al drammatico alone narrativo una buonissima vivacità di base.

La seconda opera degli Avvocati del Diavolo è, per farla breve, il tipico disco che si ascolta e si apprezza, tramite il quale si comprende in modo lampante di aver a che fare con un nucleo di musicisti preparati e di buon livello.
E che, però, al suo termine, sembra non convincere in modo completo in virtù di un songwriting che non mette ancora nella condizione di confezionare pezzi in grado davvero di risultare memorabili.

La sfida per emergere insomma, è spietata. E agli ADD serve qualcosa in più in fase di composizione per riuscire davvero a spuntarla, facendosi notare in un mare ormai infinito di nuove proposte…

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