Recensione: A Farewell To Gravity

Di Stefano Burini - 23 Aprile 2013 - 0:01
A Farewell To Gravity
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Anno: 2013
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53

Nati nell’ormai lontano 1999 gli Hypnotheticall, sestetto veneto capitanato dal chitarrista Giuseppe Zaupa, giungono con il presente “A Farewell To Gravity”, al traguardo del secondo album sulla lunga distanza dopo una lunga gavetta costellata da ben tre demo (tra cui “Thorns“, già recensito sulle nostre pagine) e culminata nel debutto ufficiale costituito da “Dead  World”, pubblicato nel 2009.

Il nuovo parto di casa Hypnotheticall si compone di undici tracce di quello che si potrebbe sommariamente definire “alternative metal a tinte progressive”, vagamente psichedelico, piuttosto pesante e “moderno” in quanto a distorsioni quanto complessivamente fluido e “onirico” in termini di coordinate musicali. Dal punto di vista strumentale c’è ben poco da obiettare: gente come Francesco Tresca (batteria, anche negli Arthemis) e Luca Capalbo (basso, ex Gory Blister) sa indubbiamente il fatto suo, ma anche i due chitarristi (Mirko Marchesini oltre al già citato Zaupa) e il tastierista Davide Pretti  mostrano una perizia sicuramente degna di nota. Le note negative incominciano a farsi largo laddove non si percepiscono una varietà e un’ispirazione equiparabili, in termini qualitativi, alle mere doti tecniche e, in particolare, laddove ci si vada a scontrare con le particolari vocals di Mirko Ciscato. Per quanto sia, in effetti, apprezzabile il tentativo di trovare modalità di espressione il più possibile originali e personali, la resa effettiva delle parti vocali viene in più d’un frangente inficiata da lacune tecniche non indifferenti.

Ed è così che a fianco di composizioni interessanti come l’opener “From The Universe Beyond” (buona anche se forse tirata un po’ troppo per le lunghe), “First Draft Of A Life” (probabilmente è sua la miglior melodia di tutto l’album) e “Crisis” (molto prog e con batteria in evidenza) ne troviamo altre potenzialmente buone ma penalizzate da un’approccio vocale poco convincente. E’ questo il caso di “Let Life Be An Origami”, animata dall’ottimo guitar work delle due asce, e di “Brainstorming Line”, traccia che parte un po’ in sordina per poi trovare un bel colpo di coda nel finale a tutta birra. Tra i brani, viceversa, globalmente poco convincenti sia sul piano vocale che su quello compositivo, si possono annoverare l’inconcludente “Home”, in bilico tra riff poco incisivi e linee vocali da rivedere, la confusa “When The Kraken Comes” e i due intermezzi strumentali (“(Nevro)Tic” e la title track), sinceramente di dubbia utilità. 

Si staccano, inoltre, dal resto data la loro natura più tranquilla (quando non addirittura semi-acustica) la discreta “Drifting Dreamers”, nella quale Ciscato mostra qualche notevole inflessione degna dello Sting dei vecchi tempi, e la conclusiva “Hirnyaloka”, animata da percussioni esotiche e da un atmosfera più leggera.

Difficile dare un giudizio su un lavoro così eterogeneo e con il grande punto interrogativo costituito (a detta di chi vi scrive) da una voce che, allo stato attuale, oltre a non convincere quasi mai (sia in termini di intonazione che di pronuncia), in alcuni frangenti penalizza pesantemente la resa di composizioni altrimenti non prive di spunti di interesse. Le basi ci sono, ma ci sono anche alcuni aspetti su cui il combo vicentino dovrà ancora lavorare per trovare la famosa “quadratura del cerchio”. Rimandati.

Stefano Burini

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