Recensione: A Hatred Manifesto

Di Daniele D'Adamo - 15 Maggio 2014 - 23:25
A Hatred Manifesto
Band: Narbeleth
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2014
Nazione:
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78

 

Il black metal estrinseca in maniera sublime ciò che alberga nei più reconditi e oscuri anfratti dell’animo umano. Un concetto semplice e lineare che fonda le sue radici nei Black Sabbath, negli Angelwitch, nei Venom e, anche se in maniera musicalmente sempre diversa, nei Mercyful Fate. Band seminali che, ciascuno a modo proprio, per l’appunto, hanno iniziato a guardare all’interno dell’Io. Scoprendo via via emozioni e sentimenti sino allora celati forse, anzi sicuramente, per paura; giacché minavano alla base gli ottimistici ideali di una società che, a quarant’anni di distanza, si sta dimostrando fallimentare in tutti i sensi.  

Questo cappello è necessario per spiegare come sia possibile che un uomo nato e cresciuto in un’isola caraibica, Dakkar (al secolo Luis Hernandez) e il suo mono-ensemble Narbeleth, possa isolarsi totalmente dall’ameno contesto climatico per scendere le scale della propria personalità e accoccolarsi definitivamente nelle tane dei territori sotterranei. Quell’underground in cui regna incontrastata l’asocialità e l’afflizione dove, nel silenzio del buio, nascono opere come “A Hatred Manifesto”.

Una discesa nell’orrido compiuta con dovizia e precisione, nella quale non manca cioè nulla dei dettami del black metal ortodosso scandinavo degli anni ’90. Quello che oggi, cioè, si chiama ‘raw black metal’ (preferibile, per chi scrive, al troppo abusato – anche in altri generi – ‘old school’). Una definizione mirata a indicare che trattasi di forma impostata sul rigore stilistico teso a rispettare pedissequamente le gesta dei Padri fondatori, identificabili in act leggendari fra i quali si possono citare per esempio i Darkthrone, gli Immortal, i Mayhem, i Gorgoroth e gli Urgehal, dei quali il Nostro itera non a caso la violentissima “Nyx”, tratta da “Atomkinder” del 2001.  

Nonostante la lontananza fisica dalle terre scandinave, però, l’one-man band dell’Avana, nata nel 2008, dimostra di saperci fare, e pure bene. L’esperienza c’è, poiché Dakkar non è nuovo a incidere dischi (“Dark Primitive Cult”, demo, 2009; “Hail Black Metal!”, EP, 2012; “Diabolus Incarnatus”, full-length, 2012); per cui “A Hatred Manifesto” beneficia, oltre a ciò, dell’indubbio bagaglio culturale che Dakkar stesso si porta dietro sin dai tempi degli Antestor (2005), gruppo cubano anch’esso dedito al black metal, tuttora in attività. E, condizione necessaria anche se non sufficiente a dare alle stampe un buon lavoro, c’è anche una tecnica personale del tutto adeguata a fare di “A Hatred Manifesto” un prodotto underground, ovviamente, ma di sicura professionalità. Di one-man black band ce ne sono a migliaia se non a decine di migliaia, sparse per il mondo, ma il progetto Narbeleth si pone fra i migliori a livello assoluto.   

Un risultato che si può spiegare, oltre che con le motivazioni più sopra riportate, con il lato puramente emozionale della faccenda. Dakkar è intriso sino all’osso dal nero metallo, ne ha assorbito al 100% filosofia e attitudine, diventando un fedele quanto inflessibile devoto alla misantropia, rifiutando le religioni affondando con l’anima e il corpo nelle gelide lande delle terre artiche.

Insomma, Narbeleth e “A Hatred Manifesto” potrebbero esser nati a Oslo che nessuno se ne accorgerebbe. Il che, in sintesi estrema, è tutto dire sull’enorme passione che muove Dakkar e, perché no, sul suo innegabile talento.

Daniele “dani66” D’Adamo
 

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