Recensione: A Long Trail Of Green land

Di Lorenzo Maresca - 6 Dicembre 2015 - 10:00
A Long Trail of Green Land
Etichetta:
Genere: Alternative Metal 
Anno: 2015
Nazione:
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65

Classificare gli album per genere musicale oggi è sempre più difficile e molte persone non sono nemmeno interessate a dare un nome a quel che ascoltano o suonano, considerando un limite etichettare la musica con una definizione che non rende più l’idea di ciò che dovrebbe rappresentare. Del resto, la gran quantità di gruppi che mescolano gli stili più disparati per autentica originalità, o per semplice gusto della provocazione, contribuisce a sfumare i confini musicali di anno in anno. Ecco perché ho inserito A Long Trail Of Green Land in un genere che, se non è il più adatto, almeno rimane abbastanza vago da non escludere le numerose influenze che questo disco mostra. Prima però cerchiamo di capire da dove arriva.

Sotto il nome di The Southern Project si riuniscono molti musicisti, ma la figura fondamentale è quella di Mauro Patti, batterista agrigentino poco più che ventenne. In realtà bisognerebbe parlare di polistrumentista, perché anche se il suo ruolo principale rimane dietro alle pelli, Mauro suona quasi tutti gli strumenti che si sentono, da quelli tipici del metal ad altri meno scontati come banjo e armonica. A Long Trail OF Green Land oltre a essere l’esordio del Southern Project è un concept album con una trama che potrebbe adattarsi a un film d’azione. Il protagonista è un ragazzo che vive sereno in una comunità di motociclisti, finché una notte, per qualche misterioso motivo, viene proiettato in una sorta di mondo parallelo. Qui i suoi amici e la sua donna sono ridotti in schiavitù dentro un enorme campo di prigionia, e sarà lui a trovare la forza di liberarli e scappare con loro.

L’album sembra essere diviso in tre parti. La prima si sviluppa fra thrash e stoner, anche se nel primo pezzo, “Deflagration”, si inseriscono in modo massiccio tastiere e sintetizzatori. Da subito spicca tra le altre “Chains”, una delle tracce migliori: ruvida, violenta e con la giusta dose di rabbia che ci si aspetta da un disco di questo genere. Peccato per la produzione, che tende a sminuire il risultato finale, soprattutto per quel che riguarda la chitarra. È vero che da un disco autoprodotto non si può pretendere la stessa produzione di una rockstar senza problemi di budget, ma il suono un po’ “distante” che hanno i brani riduce l’impatto nei momenti più pesanti. “Hopes” cambia umore rispetto alla precedente, ma risulta sottotono, complice una prestazione vocale non proprio impeccabile.
Decisamente più tranquilla la parte centrale, anche se non rinuncia del tutto alla componente metal. Qui si passa a un misto di post-grunge e alternative dove spesso la chitarra pulita è il solo accompagnamento per una voce malinconica (“March Of The Wolves”, “Desolation In A Box”, “Memories And Hopes Remains”). Il pezzo più interessante è senza dubbio “Mother Of Breath”: un introduzione folk tra banjo, flauto, violino e chitarra acustica prepara l’entrata di una voce femminile, ma dopo pochi minuti arrivano la distorsione e un cantato in growl a portare il brano in una direzione imprevista, verso un finale che mescola le due componenti.
Con “MotorBattle” e “The Final Escape”, invece, si torna a un metal più tradizionale, mentre i ruggiti delle moto e i colpi delle mitragliatrici proiettano l’ascoltatore nell’ultimo capitolo della storia. I brani funzionano piuttosto bene e si adattano alla scena raccontata, alleggerendo anche l’atmosfera generale. Con “Back On Blues” si arriva al lieto fine: il titolo spiega già tutto, ma anche qui non mancano le sonorità high gain a dare coerenza con il resto dell’album.

Di idee ce ne sono in questo disco, inoltre la varietà stilistica mantiene viva l’attenzione e, in qualche caso, sorprende addirittura. Quello che manca è un ultimo salto di qualità per scacciare del tutto l’aspetto del demo, non solo nella produzione. Si sentono ancora diverse incertezze qua e là nelle composizioni, nonostante si percepisca l’impegno che hanno richiesto. Se tutti i pezzi avessero la forza di “Chains” e la fantasia di “Mother Of Breath” il risultato sarebbe ben diverso. Speriamo quindi che il prossimo lavoro del Southern Project vada in questa direzione.

 

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