Recensione: A Map Of All Our Failures

Di Damiano Fiamin - 18 Ottobre 2012 - 0:00
A Map Of All Our Failures
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Anno: 2012
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70

È di nuovo ora di chiudere le tende e impedire che il giorno faccia capolino nella nostra vita. Non c’è più niente da ridere: a distanza di tre anni dalla loro ultima fatica, sono tornati i My Dying Bride.
Sono ormai vent’anni che il quintetto di Bradford sforna dischi che seguono delle linee guida ben precise: lasciate ogni speranza, oh voi che ascoltate, preparatevi a sonorità funeree e soffocanti e non aspettatevi di rivedere la luce del sole tanto presto.
Durante queste due decadi, Stainthorpe e soci hanno attirato lodi esaltate e critiche spietate, polarizzando gli ascoltatori in due fazioni opposte: a ogni nuova uscita, si contrappongono coloro che adorano incondizionatamente l’afotica produzione dei cinque e quanti, invece, preferirebbero decapitarsi che essere costretti ad ascoltare due tracce di fila di un loro album. Difficilissimo trovare mezze misure. Cerchiamo comunque di sgomberare la mente dai pregiudizi e di valutare A Map Of All Our Failures per quello che è.

Chi ben comincia…campane a morto risuonano cupe nelle nostre casse, mentre riff mortiferi e trascinati si riversano viscosi nelle nostre orecchie, perfetti esempi delle sonorità dense e della completa assenza di una qualunque sorta di facile armonia. Già dai primi minuti, si vengono a cristallizzare le particelle fondamentali che andranno a costituire quest’undicesimo capitolo della discografia della band: una ritmica lenta che esplode e incalza improvvisamente, bassi profondi, violini e tastiere acidi e distorti e una voce che alterna lamentose nenie a growl più feroci.
Una costruzione abbastanza coerente con quanto siamo stati abituati a sentire fino ad adesso; i My Dying Bride non si lanciano in sperimentazioni troppo audaci, preferendo consolidare la loro tetra fortezza musicale seguendo una strategia di sicuro impatto.  Non sempre, però, la strada più semplice è anche la migliore: lo scotto da pagare, in questo caso, è una notevole omogeneità sonora tra i diversi pezzi. Le diverse tracce richiedono numerosi ascolti prima di poter essere distinte l’una dall’altra e finiscono spesso per mischiarsi in un amalgama uditiva indistinta.
Questo fenomeno produce, a mio avviso, due diversi risultati: se, da un lato, possiamo evidenziare una buona uniformità qualitativa tra le varie canzoni, d’altro canto non possiamo che dispiacerci della mancanza di una o due brani “forti”, in grado di emergere dal calderone dei loro fratelli. Fortunatamente per chi ascolta, però, la qualità rimane medio/buona, e non possiamo lamentarci troppo dell’effetto finale. È necessario ribadire, però, che questo è un disco che richiede notevole attenzione e dedizione per essere compreso. Non vi aspettate di poterlo fronteggiare a cuor leggero o, peggio, di lasciarlo suonare in sottofondo: perdereste tutte le varie sfumature che scaturiscono dalle varie tracce e vedreste appiattirsi ancor di più il prodotto finale.

Poco più di un’ora di musica per otto pezzi. Questo è quanto ci offrono i cinque inglesi con il loro ultimo lavoro. Qual è, dunque, il giudizio finale su questo A Map Of All Our Failures? A conti fatti, è un disco caratterizzato da luci e ombre. La già citata uniformità si può anche trasformare in monotonia e capita, a volte, che si attenda spazientiti la fine di un brano di cui guardiamo fluire lentamente il minutaggio. Inoltre, il violinista non viene sfruttato in maniera adeguata e si ritrova spesso a essere, più che un componente del gruppo, un orpello stilistico sotto valorizzato.
In linea di principio, se avete apprezzato quanto prodotto dal gruppo fino a oggi, vi dovreste trovare a vostro agio anche con questo CD, soprattutto  se a Songs of Darkness, Words of Light preferite The Dreadful Hours. In ogni caso, non vi aspettate grosse novità e non montate aspettative esagerate nel vostro cuore. Se lo stile del gruppo, al contrario, vi ha sempre annoiato a morte, rifuggite con forza anche da quest’ultima fatica della band.  Se appartenete alla fazione degli indecisi che valuta caso per caso, consiglio prudenza: questa è un’opera complessa e di difficile approccio, con parti estremamente pesanti che potrebbero risultare  complesse da digerire anche per gli appassionati di doom metal. Assaggiatela con cautela o potreste rimanerne soffocati.

Damiano “kewlar” Fiamin

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Tracce:
01. Kneel Till Doomsday
02. The Poorest Waltz
03. A Tapestry Scorned
04. Like A Perpetual Funeral
05. A Map Of All Our Failures
06. Hail Odysseus
07. Within The Presence Of Absence
08. Abandoned As Christ

Formazione
Aaron Stainthorpe – Voce
Andrew Craighan – Chitarra
Hamish Glencross – Chitarra
Lena Abé – Basso
Shaun MacGowan – Tastiera, violino

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