Recensione: A Merging to the Boundless: Void of Voyce

Di Daniele D'Adamo - 2 Giugno 2017 - 0:00
A Merging to the Boundless: Void of Voyce
Band: StarGazer
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2017
Nazione:
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70

“Merging to the Boundless” è il terzo full-length in carriera degli australiani StarGazer, uscito nel 2014. “A Merging to the Boundless: Void of Voyce” è il quarto, anche se, come suggerisce il titolo, altri non è che il precedessore, privo di linee vocali.

Potrebbe apparire un’operazione senza senso, quella della Nuclear War Now! Productions, giusto per realizzare un’uscita discografica senza fatica o quasi. Una mera manovra commerciale. Così non è, anche e soprattutto perché non avrebbe senso: il campo di azione è quello dell’underground più profondo, con che il potenziale numero di acquirenti è ridotto, come numero, per definizione stessa del genere suonato: il death metal.

Contaminato pesantemente, però. Anzi, la possibilità di poter ascoltare con concentrazione solo e soltanto la musica regala una sensazione di piacere unica. Sì, poiché si possono così apprezzare nel dettaglio anche i più piccoli particolari. E ce ne sono tanti, di sottigliezze, in “A Merging to the Boundless: Void of Voyce”. Il death dei Nostri, difatti, è sì violento e a volte anche brutale ma ricco di elementi progressive.

Grazie a un sound pieno e caldo ma anche preciso e pulito, i brani del disco offrono dettagli altrimenti invisibili, se coperti dalla voce. La bravura esecutiva degli StarGazer è assolutamente indiscutibile in quanto a livello qualitativo: bravissimi davvero a sciorinare tonnellate di riff; articolati in ritmi mobili e sciolti, quasi… disarticolati. Selenium è un batterista tentacolare, incapace di tenere lo stesso tempo per più di uno o due secondi, coadiuvato da un grande bassista che risponde al war-name di The Great Righteous Destroyer.

Ed è proprio l’assenza dell’ugola sia dello stesso The Great Righteous Destroyer, sia dell’impetuoso axe-man The Serpent Inquisitor, a rendere tutto possibile.

Anche se, occorre evidenziarlo perché circostanza di non secondaria importanza, l’ascolto diviene più complesso e meno intuitivo, dovendo riferirsi a un viaggio in cui manca la bussola, non c’è la conduzione delle linee vocali. A parte l’opener-track dall’impatto diretto e frontale, retta da un main-riff gigantesco, il resto dei brani diverge verso un flavour progressivo la cui assimilazione non è né semplice né immediata.

Con che ci si può stancare presto, nel tragitto da ‘Black Gammon’ a ‘Incense and Aeolian Chaos’, seppure non sia del tutto assente la melodia, indispensabile per alleggerire un pochino la serietà di un platter adulto e maturo (‘The Grand Equalizer’).

Il quale, comunque, resta un’opera fondamentalmente per appassionati.

Non per tutti, insomma.

Daniele “dani66” D’Adamo

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