Recensione: Ablutionary Rituals

Di Daniele D'Adamo - 1 Aprile 2017 - 0:00
Ablutionary Rituals
Band: Grog
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2017
Nazione:
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65

È passato un quarto di secolo, oramai, da quando i portoghesi Grog hanno visto per la prima volta luce. Era il 1991, a Oeiras, non lontano da Lisbona.

Ora, nel 2017, tocca a “Ablutionary Rituals”, quarto full-length in carriera, dimostrare che nulla, dell’antica ferocia, sia andata perduta nelle sabbie del tempo.

E così è.

L’angosciante intro ‘Revelation – Open Wound’ è quasi un tribale richiamo al passato (“Scooping the Cranial Insides”, 2011) per raccogliere le terribili forze che sostengono il brutal death metal dei Nostri. Imperioso, nella devastante ‘Uterine Casket’, violentissima sferzata sulla schiena di roventi blast-beats mitragliati da Rolando Barros, ricca – pure – di metalliche scudisciate rese tali dal rombo stridente del basso di Alexandre Ribeiro. Il sound è pieno, robusto, carnoso; per nulla tendente ad assottigliarsi quando i BPM assumono valori da vertigine. Il growling / semi-inhale di Pedro Pedra “Aion” è un tormentoso lavorìo al fianco, una specie di raspa che, lentamente, scarnifica il corpo sino a portare a lucido le ossa.

La tecnica messa in gioco è notevole e ne benefica il recalcitrante ritmo sincopato di ‘Sterile Hermaphrodite’, per citarne una a caso. La forma-canzone è quasi più tipica del grindcore: breve, intensa, priva di orpelli, diretta, frontale. Tuttavia, in questo caso, è proprio l’abilità tecnica posseduta dai Grog a trascinare irresistibilmente lo stile verso il death metal. In bilico fra brutal e technical, sebbene essi si riferiscano a tipologie assai simili.

Sfracelli come ‘Vortex of Bowelism’ soddisfano senza dubbio gli appetiti di chi ama la devastazione chirurgica. Davvero i vortici del forsennato drumming strappano letteralmente la pelle di dosso, ma trattasi di operazione eseguita con rara perizia e piacevole precisione. I Grog ci sanno davvero fare, con i loro strumenti, e non si esimono dal darlo a vedere, anzi sentire. Tant’è che, giusto per tentare di rendere quanto più possibile fedele con le parole la riproduzione del suono di “Ablutionary Rituals”, si potrebbe azzardare il termine technical grindcore. A rigore, prendendo carta alla mano con sopra indicati i principali dettami stilistici, così dovrebbe essere definito un brano come ‘A Scalpel Affair’, veemente terremoto dalle vibrazioni perfettamente cicliche e sincrone fra loro.

Così come ‘Gore Genome’ e tutte le altre, esclusa la conclusiva ‘Katharsis – The Cortex of Doom and Left Hand Moon’, esperimento noise che insinua il concetto di riempitivo. Mettendo da parte questo pezzo, il tutte le altre di cui sopra lascia intendere che, nella sua statuaria concezione, “Ablutionary Rituals” non sia un lavoro particolarmente vario. Benché la feroce nonché iperattiva chitarra di Ivo Martins si dia un gran daffare, la sostanziale monotonia delle linee vocali (per così dire) vanifica un po’ il tutto, tendendo a uniformare gli sforzi compiuti in sede di songwriting.

La proposta dei Grog è senza dubbio già di per sé solo per appassionati, essendo (volutamente) priva di qualsiasi elemento catchy. Nondimeno, nel complesso, veri e propri macelli come ‘From Disease to Decease’ appaiono troppo simili fra loro, non tanto per il numero e tipo di note, quanto per il modus operandi compositivo, bene o male sempre lo stesso.

E quindi, alla fine, noioso.

Daniele “dani66” D’Adamo

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