Recensione: Abzu

Di Alessandro Calvi - 11 Ottobre 2011 - 0:00
Abzu
Band: Absu
Etichetta:
Genere:
Anno: 2011
Nazione:
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75

Da qualche tempo a questa parte la fantasia nei titoli, in casa Absu, sembra essersi presa una vacanza. A tre anni dal precedente “Absu”, album omonimo della band a simboleggiare una sorta di nuovo inizio, arriva infatti il nuovo disco, curiosamente intitolato solo “Abzu”. Andiamo dunque ad ascoltare cosa è stata capace di tirar fuori dal cilindro questa volta la “più famosa occult black metal band americana”, come la stampa l’ha ormai soprannominata.

Chi si dovesse aspettare da questo “Abzu” un seguito del precedente “Absu” a livello di sonorità e ritmiche, in quanto secondo capitolo della cosiddetta Abyssic Trilogy basata sulla Magia Enochiana (sistema di cerimonie magiche basato sull’evocazione e il controllo di svariati spiriti angelici, secondo quando scritto dal dottor John Dee e da sir Edward Kelly nel 16° secolo) commetterebbe un grosso errore.
“Abzu” è, infatti, dall’inizio alla fine un vero e proprio pugno nello stomaco di pura violenza e aggressività sonora. Un album del genere non sfigurerebbe nella discografia dei Marduk a fianco di “Panzer Division Marduk” per velocità d’esecuzione e quantità di riff macinati. Gli unici istanti in cui si riesce a tirare il fiato sono, di fatto, tra un brano e l’altro perchè per il resto del tempo si è letteralmente schiacciata dal muro sonoro proveniente dalle casse dello stereo. Un muro sonoro tutt’altro che disprezzabile, sempre vario e ispirato. Il black metal di matrice americana, in questo caso, strizza molto l’occhio a certe soluzioni death e, in particolare, al thrash metal della bay area. Rimandi agli Slayer e agli Exodus si ritrovano lungo tutta la tracklist senza, per fortuna, risultare troppo invadenti, forzati o, semplicemente, scopiazzati. Il senso di dejà-vù è brillantemente evitato e tutto l’album suona genuinamente come figlio legittimo di Proscriptor e soci. Un figlio, tra l’altro, estremamente ispirato, fresco, che non stanca anche dopo ripetuti ascolti e, anzi, riesce spesso a regalare nuovi spunti e interessi disvelando piccoli particolari precedentemente non notati.
Di fronte a un prodotto di così buona qualità, quindi, spiace molto notarne la durata estremamente ridotta. Solo sei tracce per un tempo di riproduzione complessivo di soli 37 minuti circa. E per fortuna che c’è la conclusiva “A Song for Ea”, song che da sola sfiora i 15 minuti, e si candida a canzone più lunga di sempre per gli Absu, perchè gli altri brani oscillano invariabilmente tra i 3 e i 5 minuti.
Proprio “A Song for Ea” merita una trattazione a parte in quanto composta da ben 6 movimenti diversi: (a) E-A (b) A Myriad of Portals (c) Third Tablet (d) Warren of Imhullu (e) The Waters – The Denizens (f) E-A (Reprise). Movimenti che, alla prova dei fatti, risultano ciascuno una canzone a se stante, peccato quindi non siano stati sviluppati in maniera più approfondita e su un minutaggio maggiore. Siamo discretamente certi che la qualità non ne avrebbe risentito e, al contempo, avremmo potuto beneficiare di altre cinque o sei tracce che avrebbero potuto allungare un po’ il minutaggio di un album oggettivamente corto.

Sotto il profilo produttivo meritano un elogio le registrazioni svolte presso i Nomad Recording Studios di Carrollton in Texas. Il suono di tutti gli strumenti, in particolare, è particolarmente riuscito, risultando sporco e aggressivo al punto giusto per dare maggiore spessore alle canzoni, pur mantenendo una ottima pulizia in sede di resa delle melodie. Il mixaggio quasi non si fa notare, e per questo disco è forse la cosa migliore, sempre funzionale senza mettere troppo in luce nessuno strumento nè eclissandone altri.

Per concludere gli Absu sfornano un disco che, dopo il precedente album del ritorno sulla scena, forse nessuno si aspettava. Violenza, velocità e aggressività sono gettate in faccia all’ascoltatore da ogni singola nota, il tutto con un orecchio rivolto alla melodia che fa sì che, ascolto dopo ascolto, “Abzu” non stanchi mai l’ascoltatore. Forse è questo il risultato migliore di Proscriptor e soci in questa occasione: realizzare un cd che risulti fin da subito estremamente godibile, ma dalla vita media piuttosto lunga, capace di far scoprire qualcosa di nuovo anche dopo molti passaggi nel lettore. Unica pecca fin da subito riconoscibile la lunghezza, di soli 37 minuti. I texani sembrano, quindi, in splendida forma. Ora non ci resta che aspettare il terzo capitolo della trilogia, sperando solo che non ci facciano aspettare troppo e che la qualità si mantenga alta come in questa occasione.

Tracklist:
01 Earth Ripper
02 Circles of the Oath
03 Abraxas Connexus
04 Skrying in the Spirit Vision
05 Ontologically, It Became Time & Space
06 A Song for Ea

Alex “Engash-Krul” Calvi

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