Recensione: Act V: Hymns with the Devil in Confessional

Di Fabio Martinez - 18 Marzo 2017 - 10:00
Act V: Hymns with the Devil in Confessional
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2016
Nazione:
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85

Progettare di scrivere una storia divisa in volumi è impresa ambiziosa e, anche se la produzione letteraria contemporanea ci ha ben abituato in proposito, è certo raro vedere nella musica progetti simili, anche nel prog, dove il concept album è forse la norma. È questo il proposito che nel maggio del 2006 Casey Crescenzo, fondatore dei Dear Hunter, si propone: un progetto di sei album, ambientati nel tardo XX secolo e narranti la nascita, la vita e la morte improvvisa di upersonaggio chiamato The Dear Hunter, The Boy.

Certo, una decisione come quella di Crescenzo porta sicuramente a tante responsabilità e a molti rischi, non ultimi la stanchezza compositiva e quella d’ascolto e un difficile e impegnativo ingresso nell’opera – il fruitore nuovo deve obbligatoriamente cominciare dal primo album della band, mentre quello di primo corso deve attendere anni e anni per conoscere la fine della storia. È anche vero che assicura una grande stabilità, soprattutto quando il progetto è fin dall’esordio vincente, come in questo nostro caso; ed è vero anche che l’approfondimento narrativo può così essere ampio e articolato.

Quello analizzato in questa recensione è il V atto: Hymns With The Devil In Confessional. Il quinto quindi di un opera divisa in sei atti, ma che Crescenzo definisce, cripticamente, come la fine rock dell’opera (“Act V, however, will be the final ‘rock’ record in the Act series. This may read as though I am abandoning the project, one record early – but the truth is simply that in knowing what Act VI means to the series, and what its story has to say – presenting it in the same form as Acts I-V would be short selling the creative opportunity it presents.”). Quindi in qualche modo siamo alla fine, a una fine che giunge appena dopo un anno dal quarto episodio, che era uscito sei anni dopo il terzo (nel mentre i Dear Hunter hanno pubblicato The Color Spectrum e Migrant), e che è stata scritta e registrata quasi nello stesso periodo del suo predecessore.

È questo un chiudersi pregevole, con una musica più oscura, composta con grazia e compattezza, tanto che ogni brano è funzionale al concept, alla narrazione, e che rende l’album quasi, almeno per me, una lunga suite, dal carattere quasi di musical, di Opera Rock, così come inizia con Regress, per poi sfociare subito dopo nel complesso ma leggero prog di The Moon Awake. L’album attraversa momenti eclettici e multigenere: immediata, Cascade rapisce subito nella sua apparente semplicità spazzata via da The Most Cursed of Hands / Who Am I, a sua volta spinta di lato dalla movimentata e divertente The Revival. Ancora un cambio di rotta con la malinconica Melpomen. Poi un jazz espressivo e facile di inizio secolo scorso con Mr. Usher (On His Way To Town), seguita dalla quasi disneyana The Haves Have Naught. L’acustica e bellissima Light precede il singolo dell’album, Gloria, ancora un brano movimentato. The Flame (is Gone) inizia subito con tratti oscuri, soffusi, che continuano introducendo Fire, altro gran pezzo, la cui melodia apparentemente viene spezzata dall’azzardata e azzeccata The March. Subito dopo Blood, con un intro Crimsoniano meraviglioso, che prosegue con un ritmo compassato. Tutto si chiude egregiamente con una traccia dal significativo titolo, A Beginning.  

Sicuramente Act V: Hymns with the Devil in Confessional è un album difficile, in un progetto mastodontico e complicato. Iniziare da questo quinto atto è sconsigliato anche per chi volesse goderne semplicemente la musica, non solo perché così si perderebbe il cuore essenziale dell’opera dei The Dear Hunter ma perché comunque è una storia che va ascoltata anche nei suoni fin dall’inizio. Arrivati alla fine, in attesa del vero epilogo, è forse inevitabile porsi la maledetta domanda: è questo il miglior loro album? Potrei dire diplomaticamente, e anche giustamente, che ha poco senso analizzare così separatamente il lavoro in questione, ma è anche vero che è l’atto non il più fresco ma molto probabilmente il più bello e certamente non è poco, dato chi e cosa abbiamo di fronte.

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