Recensione: Aftermath

Di Daniele D'Adamo - 11 Dicembre 2016 - 0:00
Aftermath
Band: Aphyxion
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2016
Nazione:
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76

Anche la Danimarca, da sempre un po’ a margine della migliore scena metal, ha, oggi, finalmente, i propri campioni.

Giovanissimi ma già vincitori di concorsi vari nonché assidui frequentatori di locali e festival importanti, gli Aphyxion giungono al secondo full-length di una carriera cominciata non a caso nel 2006: “Aftermath”.

Il genere, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, non è particolarmente avanzato, nel senso che alla fin fine di death metal melodico si tratta. Più che di melodeath, a parere di chi scrive. Benché ancora teneri virgulti, i Nostri paiono musicisti navigati, dalla lunga esperienza. Così, presumibilmente, è, dato atto della loro intensa attività sia in sede live, sia in sala d’incisione. Con la conseguenza che, pur essendo totalmente al passo coi tempi, il sound di “Aftermath” presenta alcune sfumature retrò che fa piacere ascoltare. Nella vorticosa corsa evolutiva che il melodic death metal sta compiendo, dai primi anni novanta, cui è nato, c’è chi ancora resta fedele ai suoi dettami primigeni, a quegli stilemi che hanno fatto la fortuna di gruppi quali, primi fra tutti, gli In Flames.

Non che questi ultimi siano però da prendere come metro di paragone, per gli Aphyxion, poiché il suono della formazione di Ribe è una perfetta unione fra vecchio e nuovo, fra le sonorità arcaiche del melodic e quelle più moderne del modern metal, appunto. Pur essendo assai melodico (‘Same Kind of Different’), difatti, il quintetto della penisola baltica non rinnega le proprie origini e, costantemente, pesta ben duro sull’incudine il suo amalgama basandosi, soprattutto, sull’aspro growling di Michael Vahl che, proprio leggero, non è.

Anche le song più catchy, cioè, come per esempio ‘Destined to Fail’, svelano un’anima rocciosa, pur volando in alto con armonie, bisogna riconoscere, di gran classe. Gli Aphyxion, per ribadire il concetto, bravi lo sono per davvero e, con “Aftermath”, mostrano di poter tranquillamente competere con le migliori realtà internazionali che praticano questo genere.

Così com’è costante una rilevante presenza metallica (‘Born to Stand Strong’, ‘Can’t Be Beat’), nel loro stile, anche le song mostrano una buona consistenza. Forse manca il capolavoro, anzi, senz’altro è così; ma lungo il percorso che va da ‘Dark Stains on Ivory’ a ‘Nature of Mankind’ non ci sono né buche, né avvallamenti. Il che è un requisito essenziale per dar luogo a un lavoro professionale in tutto e per tutto. Con, in cima, un pizzico di visionarietà, dato dalle tastiere, che non guasta affatto. Rendendo al contrario l’opera idealmente in linea con l’A.D. 2016.

Probabilmente “Aftermath” non passerà alla storia del metal estremo, proprio per la ridetta mancanza di masterpiece, nondimeno è parimenti certo che sia un album più che discreto, passibile di essere migliorato, e non di poco, preso atto dell’indubbio talento artistico posseduto dagli Aphyxion.

Daniele D’Adamo

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