Recensione: Aftermath

Di Daniele D'Adamo - 31 Dicembre 2017 - 16:12
Aftermath [Reissue]
Band: Skyforest
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2017
Nazione:
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85

Quando i sogni cominciano a volare, è il momento della magia del blackgaze, mirabile unione fra il black metal e lo shoegaze o, più semplicemente, del post-black.

Sulle orme degli inarrivabili Maestri d’oltralpe Alcest, scorrono via via numerosi progetti solisti decisi a trasmutare in musica le più profonde emozioni che sgorgano dal cuore. Gli Skyforest – o meglio la one-man band chiamata Skyforest – , nascono nel 2013 in Russia e, l’anno successivo, danno alle stampe il loro debut-album, “Aftermath”, che, per mano della Depressive Illusions Records, viene oggi riproposto in versione rimasterizzata e rinnovata nei contenuti di copertina. 

Finalmente, occorre aggiungere, poiché B.M., cioè Bogdan Makarov (Богдан Макаров), è un artista viscerale, pieno di energia, talentuoso, che merita senz’altro i benefici di un contratto discografico con una label specializzata, benché underground.

“Aftermath”, così, può dare il meglio di sé, attraverso una produzione che lucida il suono sino a farlo brillare come le stelle, cioè le sei song che compongono il disco. La profonda sinergia che il Nostro possiede nei confronti della Natura genera melodie spettacolari, ariose, dall’enorme spinta visionaria (‘Yearning for the Past’). Il pianto della chitarra è l’elemento base del post-black di B.M.: il suo lento incedere, sottolineato dagli antitetici blast-beats della drum machine, s’attorciglia alle trame dei tappeti di tastiera, per uno stile perfettamente aderente ai dettami del genere affrontato ma non solo (‘I Wish the Dawn Would Never Come’). 

Uno stile che rigurgita sentimenti, emozioni, rapimenti. È l’Amore. L’Amore per il baluginare cosmico che, all’Umanità, ogni tanto, rammenta quanto sia infinito l’Universo. Come neve, la polvere che vaga apparentemente a caso fra i corpi celesti si adagia sulla superficie di “Aftermath”; caricandolo di mirabili visioni di mondi lontani eppure vicini. I violini di ‘Nothing, Worthless’ saettano per il cielo notturno, chiamati dal battito del cuore. Allora, si fa luce, con forza, l’Amore dell’Uomo. La batteria si solleva fluida e veloce, per iterare l’accelerazione del battito cardiaco quando s’incontrano due anime complementari, formate dalla stessa sostanza, nate per essere l’una nell’altra e l’altra nell’una. Circostanza rara e caduca, ed è per ciò che, forse, l’ugola di B.M. lacera l’etere con il suo lamento straziante. Lamento che trova massima esacerbazione nella ciclopica ‘Inexistence’, incommensurabile inno alla tristezza, alla malinconia, a quell’indefinibile malessere di vivere che attanaglia certe persone, quasi soffocandole con una possente stretta alla gola. Allora, lentamente, le lacrime sgorgano dagli occhi, fonti di gioia e di dolore, confondendosi con il brillare delle supernovæ, innalzando sulle più alte vette che si possano immaginare la tragedia di un Amore nato, cresciuto ma poi morto; senza che abbia avuto il tempo di congiungersi con un altro Amore, speculare, parimenti profondo, parimenti immenso. Con ciò svanendo nel nulla, non essendoci niente e nessuno a contenerlo. Neppure la Natura, melanconica e inerte osservatrice.

Alla fine del fantastico viaggio, una female vocalist tratteggia i moti dell’anima che soffiano in ‘Together in Death’, armonizzando un mood contrario a quello del resto del platter. Come se morire assieme, nello stesso istante, fosse fonte di felicità.

L’unica, fonte.

Daniele “dani66” D’Adamo

 

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