Recensione: Age of Impact

Di Roberto Gelmi - 19 Giugno 2016 - 12:00
Age of Impact
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 1998
Nazione:
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88

Lo scorso 11 giugno, dopo cantanti come Mike Baker e Andrew McDermott, ci ha lasciato Trent Gardner, anima progster e mastermind dei Magellan, oltre che di alcuni supergruppi rimasti impressi nella memoria dei fan per la qualità della musica che hanno saputo regalarci. Stiamo parlando anzitutto del progetto Leonardo, massimo conseguimento nella carriera di Gardner e dei due album targati Explorers Club. Prima della nascita degli Avantasia, pochi anni dopo l’esordio di Lucassen con gli Ayreon, infatti, il tastierista statunitense, su volontà di Mike Varney e Peter Morticelli (referenti della label Magna Carta), concretizzò un mirabile concept album progressive metal.
Difficile pensare a una line-up migliore: il sommo Terry Bozzio (Zappa, Bozzio Levin Stevens) alle pelli, Billy Sheehan (Talas, Mr Big) al basso, niente meno che sua maestà John Petrucci (e in tutto il suo splendore) alle chitarre. Sul virtuoso dei Dream Theater va subito spesa una parola. Nel 1998 Petrucci era già uno shredder affermato, non aveva ancora abbandonato l’endorsement Ibanez e, nonostante la critica non avesse amato troppo Falling into infinity, il chitarrista aveva partecipato al primo capitolo Liquid Tension Experiment nel 1997, facendo faville. Di lì a un anno, è Storia, sarebbe stato pubblicato l’ultimo vero capolavoro dei newyorkesi, Scenes From A Memory. Ascoltare oggi la prova di Petrucci in Age of Impact ne ridà un’immagine di assoluto talento e fa rimpiangere il suo estro e stato di salute di allora (non che oggi sia poca cosa). Gardner, insomma, e qui torniamo a lui, ha saputo valorizzare grandi musicisti e al contempo scattare un’istantanea al talento delle 6-corde, leader dei DT: per questo non finiremo mai di ringraziarlo.
Tra gli altri special guest nomi importanti come Steve Howe (Yes), James Murphy (Testament), Bret Douglas (Cairo) e molti altri, solo scorrere la lista degli interpreti è cosa impegnativa. I cinquanta minuti dell’album si dividono in sole cinque tracce dal minutaggio attorno ai dieci minuti l’una. Evidente, nella ricerca di tanta sontuosità, il rimando a grandi classici prog. come “Close to the edge” o “Supper’s Ready”, Gardner era un fan di band come Yes e Genesis.
Venendo ai testi, il comunicato stampa dell’epoca dice che il concept «looks enigmatically at mankind’s fate from many angles, arriving (perhaps!) at the conclusion that man must participate toward the betterment of life here on earth, rather than fold his cards and accept misery.» [guarda enigmaticamente al destino dell’umanità da diverse prospettive, per arrivare (forse!) alla conclusione che l’Uomo deve contribuire al miglioramento della vita sulla Terra, piuttosto che nascondere le sue carte e accettare l’infelicità.]
La musica è la vera sorpresa, un tripudio di magnificenza sonora. Solo l’opener vale l’acquisto dell’album. Si tratta di un quarto d’ora abbondante di puro sollazzo progressive. Dopo un arpeggio acustico di chitarra, la coppia Bozzio-Shehaan inizia a macinare un ritmo dal groove indiavolato. L’ingresso di Petrucci è coreografico e ben valorizzato, tra abbellimenti e il giusto pathos. Lungo il caledoscopio d’atmosfere che compongono la suite, trovano spazio un ritornello corale, cambi di tempo geniali, un assolo di Derek Sherinian e i synth di Gardner, vero mattatore dei tasti d’avorio. “Fading Fast” regala all’avvio una sezione in pianissimo, dai soundscape metafisici, ascoltare per credere, si è come catapultati in una dimensione parallela simile a Shangri-La. Sul finire del terzo minuto le dinamiche aumentano d’intensità e ritornano le chitarre elettriche, poi tutto si acquieta nuovamente, le linee vocali che seguono sono un toccasana per l’anima: ritroveremo tanta poesia nel progetto Leonardo. Il finale è catartico, anche se troviamo Gardner al microfono, la sua ugola non è notevole, ma, come nel caso di Tobias Sammet, perdoniamo ai mastermind di turno qualche eccesso di protagonismo.
Altro centro, “No returning” si compone di una prima parte dall’andamento scanzonato, vero paradiso delle tastiere, poi non manca un highlight di flauto traverso e la voce di James LaBrie è semplicemente una piacevole sorpresa che dona memorabilità al brano. (Il cantante dei DT chiamerà proprio Gardner a collabora al progetto Mullmuzzler). Il guitarwork resta sempre su livelli notevoli, nel contempo Bozzio macina finezze e picchia duro senza soluzione di continuità, sopraffina la sua prova. Si rifiata solo all’inizio di “Time Enough”: Petrucci disegna paesaggi oscuri, D.C. Cooper con la sua ugola magica passa da alcune note basse ad acuti memorabili. Lo stacco al min. 3:10 anticipa i break sorprendenti del Leonardo Project, c’è anche un trombone profetico (suonato dallo stesso Gardner). Segue un assolo fatato di basso e la composizione prosegue per un paio di minuti su lidi onirici, pura arte… Dopo le ultime strofe ancora cantate dall’istrionico Cooper, l’album si chiude sontuosamente con “Last Call”, brano che tutti i fan di Petrucci ricorderanno certamente. Tutto incomincia con la ripresa del tema iniziale di “Fate Speaks”, con però LaBrie al microfono: si ha l’impressione di ascoltare i DT con un Portnoy ipervitaminizzato! Poi, dopo una sezione centrale un filo estenuante, praticamente da metà brano la scena è per la 6-corde. Un vero tripudio di virtuosismi ed emozioni, tra i migliori assoli di Petrucci insieme a quelli – giusto per citarne alcuni – di “Under a glass moon”, “Lie”, “Glasgow Kiss”, “As I Am”, senza dimenticare le variazioni sul tema de Il gladiatore (rispolverate il christmas CD Scenes from a World Tour), le mirabilie nel tributo a Frank Zappa (nel Budokan) e quelle più recenti di Live at luna park. Unica raccomandazione: chi non regge cinque minuti d’insania metallara interrompa prima l’ascolto dell’album, anche se così facendo si perde forse il momento più esaltante dello stesso. Chi volesse arrivare fine in fondo, invece, scoprirà che il platter si conclude semplicemente con un fade out cacofonico: si poteva fare meglio, ma poco importa, dopo tanto sfarzo.

In definitiva Age of Impact è un album sontuoso e compatto, che prelude al revival della rock opera d’inizio nuovo millennio. Un album, altresì, d’altri tempi, come tutte le uscite targate Trent Gardner, che riescono a creare un istantaneo effetto nostalgia. Una sola mente, tanti grandi artisti a darle vita con il loro tocco sopraffino. Un album che una volta conosciuto è difficile dimenticare, diventa parte di noi e a ogni ascolto si rivela più che coinvolgente. Il secondo capitolo targato Explorers Club è ben meno cosa. Se non l’avete ancora fatto vostro, correte ai ripari!

 

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

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