Recensione: Airbound

Di Fabio Vellata - 17 Maggio 2018 - 0:01
Airbound
Band: Airbound
Etichetta:
Genere: AOR 
Anno: 2017
Nazione:
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78

Una bella iniezione di positività ed emozioni raggianti è ciò che deriva dall’ascolto del debutto degli Airbound, band per lo più italiana, protagonista di un disco uscito in verità già da qualche tempo (era il settembre 2017) che, tuttavia, abbiamo il piacere di presentare solo ora sulle nostre pagine.

Semmai fossero ancora necessarie ulteriori conferme sullo stato di salute della scena melodica tricolore eccone una che non ammette repliche di sorta ponendosi in evidenza come un bel neon colorato e lampeggiante.
Magari con scritto a caratteri cubitali “per i fan dei Journey e degli anni ‘80”, così, giusto per essere chiari ed andare dritto-per-dritto al cuore della questione.
Il quintetto, guidato dal singer iberico Tomas Borgogna e dal chitarrista Lorenzo Foddai, infatti, non impiega moltissimo nel rivelare le proprie influenze stilistiche, preferendo giocare a carte scoperte sin dalle prime note dell’album.
Tutte le regole principali che da tempo immemore caratterizzano l’AOR più puro e semplice, quello che proprio a partire da Journey e Survivor, ha posto fondamenta solide per un genere divenuto tra i più riconoscibili e definiti, si palesano con immediatezza, lasciando intendere un convinto – quasi romantico – attaccamento ad un tipo di suono profondamente radicato all’immaginario musicale ottantiano, che ha nell’uso massiccio di melodie edulcorate, atmosfere morbide e contorni levigati una poetica tutta propria ed inconfondibile.

Elegantissimo sin dalla confezione – un plauso alla neonata etichetta Art of Melody Music – il disco d’esordio realizzato dagli Airbound vive di dieci brani elaborati con la consapevolezza di chi sa di doversi rivolgere ad un pubblico necessariamente di appassionati che, proprio come loro, ne può apprezzare compiutamente i caratteri specifici e riconoscere i valori.
Quello che coglie nel segno in modo istantaneo è la maturità con cui il gruppo ha saputo amministrare quello che è, dopo tutto, il primo capitolo della propria carriera discografica. Un tenore compositivo mantenuto sempre su buoni livelli, capace di costruire un nocciolo di canzoni solide dalle quali far emergere almeno tre – quattro momenti di statura superiore, i quali seppur non ancora in odore di “capolavoro” vero e proprio, testimoniano quanto i musicisti coinvolti abbiano già acquisito capacità importanti in termini di songwriting. 
Come ben noto a chiunque ascolti musica da qualche anno almeno, le capacità tecnico-strumentali valgono ben poco se, alla base, non ci sono buone canzoni. Ovvero un tessuto ben bilanciato ed un impasto di idee su cui poter esprimere la propria attitudine al riparo da intoppi derivanti da un scrittura statica, ripetitiva o insipida.
Intendiamoci, non c’è nulla che possa dirsi originale in un disco così tanto ancorato alle tradizioni. Tuttavia, la naturalezza con cui i brani scivolano, la facilità d’ascolto, le hookline immediate, sono tutti punti a favore di un album che ha nella scorrevolezza priva di elucubrazioni ed ossessivi sofismi un bene primario ed irrinunciabile, in ossequio proprio a quell’epoca di cui è figlio diretto e manifesto.

A dirla tutta, ci sarebbe piaciuto poter godere di suoni un po’ più profondi e scintillanti, in luogo di una produzione molto elegante ma sin troppo (crediamo volutamente) vintage. 
Ecco, tanto per sognare, un taglio alla Giant / The Storm (voliamo basso eh?), caloroso, energico, pieno e sfolgorante. Ed avremmo avuto la chiusura del cerchio su di un cd d’esordio che ancora non si affianca alla maestosità di kolossal italiani quali Shining Line, Charming Grace, Lionville, Raintimes o Edge of Forever, ma dimostra come, grazie alle evidenti qualità in possesso dei promotori degli Airbound, il traguardo non sia così distante.
Anzi, riascoltando per l’ennesima volta canzoni di altissima classe quali “Till the End”, “Don’t Fade Away” e “Zhaneta”, diremmo decisamente a portata di mano…

 

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