Recensione: All Hail the King

Di Stefano Usardi - 27 Aprile 2018 - 10:00
All Hail the King
Band: Against Evil
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2018
Nazione:
Scopri tutti i dettagli dell'album
70

A quattro anni dalla fondazione – e dopo un singolo e un EP –  gli indiani Against Evil arrivano al fatidico traguardo del primo full lenght, “All Hail the King”, introdotto da una copertina cafona e dall’attitudine decisamente old school. Otto canzoni più una intro, trentasei minuti scarsi di musica, niente fronzoli o inutili svolazzi per allungare il brodo; prendere o lasciare. Io prendo, anche se non senza un certo sospetto iniziale: nella mia ignoranza, infatti, non avevo ancora avuto notizie di gruppi heavy metal provenienti dal subcontinente indiano, così come nessuna idea dell’ipotetica scena che tale area possedesse, per cui spero che i membri della suddetta scena mi perdoneranno. D’altro canto chi non risica non rosica, e noi di Truemetal non siamo qui per recensire solo i gruppi inglesi o mmeregani ultra-super-conosciutissimi, ma per dare a voi la possibilità di conoscere e apprezzare gruppi provenienti da ogni parte del globo terracqueo, per cui vediamo un po’ com’è questo “All Hail the King”, che ho già blaterato a sufficienza.

Enemy at the Gates”, l’intro d’ordinanza che, stando probabilmente ad immutabili leggi di cui sono totalmente all’oscuro, non deve mai mancare negli album di questo tipo, scorre per fortuna senza troppi danni, creando una certa atmosfera prima di cedere il passo a “The Army of Four”, mid tempo in cui i nostri iniziano a dispensare la loro cafonaggine a suon di tempi cadenzati e muscolari, melodie tracotanti e proclami all’imminente battaglia, tutti tratti tipici dell’heavy classico; niente male, non c’è che dire, anche se quella mezza voce durante il ritornello mi ha lasciato un po’ di amaro in bocca. Per fortuna, con la title track si comincia a pestare un po’ più duro con una traccia che strizza l’occhio a certi Manowar. Viene nominato Zoltan, signore della guerra leggendario e protagonista dell’album, e il tasso di aggressività si fa più pronunciato, complice anche la maggiore passione che Siri Sri infonde alla sua prestazione. L’attenzione per le melodie trionfali, già palesata nella traccia d’apertura, si mantiene anche qui, ma ad essa si aggiunge anche un certo gusto per il pathos rombante tipico del metallo battagliero degli anni ’80 (si veda ad esempio l’intermezzo narrato, abbastanza coatto da fomentare i defender ma anche sufficientemente breve da non scadere nella pacchianeria fine a se stessa). “Stand up and Fight” aumenta i giri, confezionando una traccia più stradaiola e meno epicheggiante delle precedenti, ma che si lascia ascoltare per il suo andamento agile, seppur abbastanza scolastico; non male la sezione solista che prelude il finale. “Sentenced to Death” invece, potendo beneficiare della presenza di Jeff Loomis in qualità di ospite, calca la mano su un chitarrismo più spinto e thrasheggiante, arrotondando la proposta dei nostri e donandole spessore e la giusta dose di cattiveria, completata da una strofa arcigna e dall’assolo del suddetto Jeff e stemperata da un ritornello più arioso e melodico. Con “Bad Luck” si torna a calcare il suolo di un bell’heavy rock, arcigno e compatto, che si fa più ammiccante nel ponte e nel ritornello, impreziosito da un assolo che profuma di certo hair metal, mentre l’agguerrita e minacciosa “We Won’t Stop” torna a pigiare sull’acceleratore, con la voce che si fa aspra per seguire le orme di Lemmy o del Chris Boldenthal più aggressivo. La canzone non concede attimi di riposo, facendo della carica arrembante e sanguigna il suo tratto distintivo e impreziosendo il tutto con una prestazione strumentale decisamente vigorosa. Bel pezzo. Con “Gods of Metal” si torna al trionfalismo arrogante e un po’ pacchiano che abbiamo gustato in apertura: la canzone si sviluppa lungo i binari del mid tempo battagliero tutto sangue, onore e acciaio che piace ai defender più integralisti, ma ancora una volta la voce mi convince solo a tratti, perdendo un po’ di ispirazione nei toni bassi; al contrario, il comparto strumentale svolge il suo compito in maniera ottimale, tessendo la sua trama sonora fatta di melodie maschie e accompagnandoci alla traccia conclusiva di questo bell’esordio, la cromatissima “Mean Machine”. Qui si torna a riff quadrati e classicissimi per confezionare una canzone a metà strada tra l’heavy rock stradaiolo e ammiccante e una corposità più Accept-iana, chiudendo l’album con una traccia dinamica e giustamente caciarona.

In definitiva, com’è questo “All Hail the King”? Tutto sommato decisamente non male, direi: tenendo conto che si tratta di un esordio – e che dal punto di vista della personalità siamo piuttosto scarsi – non posso comunque non notare come il quartetto riesca a confezionare canzoni avvincenti e ben strutturate, scolastiche e derivative finché volete, ma comunque molto appaganti e varie quanto basta per mantenere sempre viva l’attenzione dell’ascoltatore. Se vi fregiate del titolo di defender di sicuro apprezzerete “All Hail the King”, altrimenti vi troverete comunque davanti a un bell’esordio da parte di un insospettabile quartetto molto motivato.
Dategli una possibilità, questi ragazzi sanno il fatto loro.

Ultimi album di Against Evil