Recensione: All Our Yesterdays

Di Roberto Gelmi - 19 Settembre 2015 - 10:00
All Our Yesterdays
Etichetta:
Genere: Vario 
Anno: 2015
Nazione:
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72

I Blackmore’s Night sono una delle poche band che sanno mettere d’accordo generazioni diverse di ascoltatori, merito dell’accoppiata d’oro formata da Candice Night (da alcuni definita la versione folk di Stevie Nicks) e Ritchie Blackmore. La cantante e il chitarrista, marito e moglie, incarnano il femminile e il maschile in modo unico dando vita, coadiuvati da un line up di tutto rispetto, a una musica lunare, dove la voce della bella vocalist risalta come canto luminoso, impreziosito dai fraseggi dall’ex Deep Purple, il quale ha annunciato per la gioia dei fan di voler tornare a suonare pezzi delle sue ex band la prossima estate.

L’acme dei B’sN si ebbe con Secret Voyage nel 2008, oggi, tagliato il traguardo del decimo studio album, i ripieni fastosi del passato sono un miraggio, rimane l’attitudine pseudo-folk e alcuni guizzi chitarristici, il resto è solo musica discreta che si lascia ascoltare come sottofondo rigenerante. All Our Yesterdays ripropone, infatti, i chiaroscuri del precedente Dancer And The Moon e risulta qualitativamente un gradino più in basso rispetto ad Autum Sky. L’artwork, dopo quello à la Mulino Bianco del 2010 e la cover gitana del 2013, questa volta è icastico: in uno specchio si vedono dei musicanti in una corte dal pavimento a scacchi e sullo sfondo un castello altomedievale arroccato su un colle.

Veniamo alla scaletta.

L’opener inizia con accordi di chitarra acustica e subito Candice scandisce, in perfetto British English, una strofa da cantastorie “Once not very long not very far away…”. Subentrano le percussioni e un ritmo in 2/2 dal sapore gitano. Il ritornello non è altro che un jingle orecchiabile che scivola via senza infamia e senza lode. Blackmore accompagna l’incedere del brano senza particolari virtuosismi; gl’inserti di violino sono dimessi, tutto si svolge con alternanza del ritornello solare e strofe seleniche.

Con le due strumentali successive le cose migliorano. “Allan Yn n Fan” (letterlamnte “Lì fuori”) si basa su una melodia celtica (Ritchie ha retaggio in parte anche gallese), con unisoni di violino e flauto, e invita a una danza gioiosa. Anche le linee di basso sono pulsanti, anche se non raggiungono i livelli di “Dance of the Darkness”. Le note di cornamusa donano un tocco di originalità ulteriore al brano, sana Tafelmusik. Agli antipodi la successiva “Darker Shade Of Black”, migliore brano dell’album. Le parti di violino fanno da padrone lungo sei minuti di musica tra l’onirico e il solenne; i cori sono metafisici, le sterzate acustiche una raffica di vento pungente. Ritchie regala, poi, l’assolo più convincente in scaletta, cosa chiedere di meglio?

I toni si smorzano ed è la volta di un trittico di cover. Si parte con la rivisitazione di “Long Long Time” (brano interpreto nel 1970 da Linda Ronstadt) che si rivela una ballad canonica, con alcuni inserti di flauto e l’esile filo d’Arianna tessuto dalla chitarra di Blackmore. Candice ammalia con la sua ugola d’oro e si dimostra abile anche nelle seconde voci. Tutto manca, però, di un minimo di mordente e il brano non resta impresso più di tanto nella memoria. Pezzo più catchy e movimentato, la cover del classico targato Mike Oldfield “Moonlight Shadows” presenta un bridge in crescendo e un refrain dalle tinte natalizie, complici alcune percussioni ammiccanti. Blackmore in fase solistica arricchisce il pezzo, ma non è pirotecnico, peccato, qualche virtuosismo sarebbe calzato a pennello. Tra le sorprese di All Our Yestardys troviamo la cover di Cher e Sonny “I Got You Babe” (1965), brano incluso, in una versione irritante, nella colonna sonora del film Ricomincio da capo (consigliato a chi non lo conoscesse). L’hit non si discute, è un pezzo di Storia. Gli arrangiamenti con pive e campane continuano sul sentiero natalizio, ma non è troppo presto per pensare al 25 dicembre?

Ghironda e percussioni in apertura di “The Other Side”. Ritroviamo i ritmi scazonti tipici dei B’sN e qualche atmosfera ricercata, ma niente di che. “Queen’s Lament” è un intermezzo medievale, monodico, la nyckelharpa è protagonista assoluta. Momenti magici, momenti effimeri, subito incalzati dal violino di “Wherever Are We Going From Here” e agli abbellimenti tipici del trademark degli inglesi. Candice osa un minimo sporcando alcune linee vocali fin troppo fatate, ma il risultato è discreto, la musica non graffia. “Will O’ The Wisp” è tutta giocata sul mix di percussioni, tuttavia il ritornello, e più in generale il main theme, è una melodia fin troppo banale. A metà del quarto minuto ritornano le cornamuse, mentre il finale è in fade out. Manca poco al termine del platter. “Earth Wind And Sky” (nessun riferimento agli i Earth, Wind & Fire, tranquilli) ripropone il chiaro di luna di “Long Long Time”, e si può definire un brano romantico, nel senso più comune del termine. “Coming Home” inizia con un fraseggio gustoso e procede come carola coinvolgente. Rullante, nacchere e cori concludono l’album in crescendo.

L’album termina, ma vorremmo continuasse ancora. All Our Yesterdays in definitiva è un disco che miscela musiche folk e tradizionali alla maniera solita dei B’sN, però non gode di grande longevità d’ascolto. Le tre cover presenti, significative per il vissuto di Candice e Ritchie, si amalgamano in scaletta, ma non bastano per parlare di genialità. Nessun capolavoro, dunque, ma nemmeno un calo qualitativo drastico, per questa volta Blackmore & Co. si confermano ispirati quanto basta.

p.s. tra le varie edizioni dell’album è disponibile anche una deluxe edition con un bonus dvd, contenente i video di “All Our Yesterdays”, “Will O’ The Wisp” e un’intervista a Ritchie e Candice (che propongono i brani in scaletta in versione unplugged).

 

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

 

 

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