Recensione: All The Ills Of Mankind

Di Francesco Gabaglio - 20 Febbraio 2014 - 0:00
All The Ills Of Mankind
Etichetta:
Genere: Doom 
Anno: 2013
Nazione:
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70

Dei veneziani Blood Red Water avevamo già parlato in occasione del loro promettente EP d’esordio del 2012, dal titolo Tales of addiction and despair. Quest’ultimo, collocabile tra il doom più classico e lo sludge di stampo Eyehategod, aveva l’unica evidente pecca di essere, per l’appunto, un EP, cosa che non permetteva di valutare perfettamente le capacità della band sulla lunga distanza. Passato un anno e accorpati alla lineup un ulteriore chitarrista e un bassista fisso, la band ci si ripresenta con un altro EP: una scelta forse data dalla volontà di farsi le ossa in modo graduale prima di affrontare la prova del full length. Poco male: inseriamo quindi il disco nel lettore e vediamo cosa ci propongono questa volta i veneziani.

La prima traccia è A ride in the funhouse: dopo una lenta e opportuna introduzione, il brano prende il volo con una vera e propria cavalcata doom costituita da un riff da manuale: una cavalcata sporca e al contempo euforica, che sta lì a dare il benvenuto all’ascoltatore in questa palude di disco. Megalophobia si apre anch’essa con una lunga introduzione, questa volta  composta da un arpeggio clean di chitarra; esso è seguito da uno sviluppo – non originalissimo, a dire la verità – di chitarre che evocano a sprazzi gli anni ‘70. Il brano nel suo complesso non riesce a mantenere costante la tensione, anche a causa dell’assolo di chitarra tutto sommato poco rilevante. The outstanding loss è invece uno dei pezzi più interessanti del disco. L’esordio è affidato ad una chitarra wah-wah, la cui parte è poi ripresa e fatta seguire da un riff che ricorda i Candlemass del periodo Lowe. Da notare anche il monologo tratto da Il settimo sigillo, film culto di Ingmar Bergman, che aggiunge quel tocco d’atmosfera in più al pezzo. Bad trip in a toxic mind è introdotta da un altro monologo, tratto questa volta da Mulholland Drive di David Lynch. Il brano è mandato avanti dall’ormai consueto riffone doom, non originalissimo ma che serve allo scopo di far scapocciare a dovere l’ascoltatore. La traccia si fa notare soprattutto grazie ai diversi assoli di chitarra, in questo caso ben costruiti ed efficaci nell’economia del pezzo. Il disco si chiude infine con Thunderstorm in Venice, della quale vale la pena menzionare le spettrali backing vocals, presenti in due declinazioni: le prime, femminili, lungo le strofe; le altre, maschili, alla conclusione del pezzo e accompagnate dalla prima chitarra che fa di nuovo sfoggio di un ben realizzato assolo dall’efficace impatto atmosferico.

Il sound dell’EP si presenta a tratti confuso a causa della schiacciante predominanza delle frequenze molto basse: la voce ne esce penalizzata e tende a rimanere seppellita sotto la grassa distorsione delle chitarre, cosa che non accadeva nel precedente disco. Il tutto, a dire il vero, non nuoce più di tanto alla resa complessiva, in quanto proprio il suono fangoso è una caratteristica fondamentale per questa band, tanto che è difficile capire quanto la sporcizia sonora non sia stata volontariamente ricercata. Tenendo inoltre conto del fatto che siamo di fronte a dei pezzi autoprodotti, possiamo giudicare questo aspetto come più che sufficiente.

La voce, a metà tra growl e cantato rauco, non presenta particolari cambiamenti rispetto alla prova del 2012, il che è certamente un bene. Assai rilevante, come si è visto, è poi l’introduzione di un’altra chitarra e quindi degli assoli, che costituiscono un importante elemento di variazione. Tuttavia in fase di songwriting ciò è andato a discapito delle parti ritmiche, le quali riescono ad essere piuttosto coinvolgenti ma sono spesso poco originali. La batteria svolge il suo compito mantenendo il lento groove senza infamia e senza lode; osservazione che vale anche per il basso, che si attesta su ritmi altrettanto lenti lungo tutto l’EP.

In conclusione, in All The Ills Of Mankind il quintetto veneziano conferma la propria capacità di cimentarsi in questo genere, non inventando nulla di nuovo ma mantenendo livelli qualitativi più o meno in linea col precedente lavoro. Dedicando più cura al riffing e alla sinergia tra le due chitarre, i Blood Red Water potrebbero fare il botto.

Francesco “Gabba” Gabaglio

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