Recensione: All You Can Hate

Di Stefano Burini - 18 Aprile 2014 - 9:00
All You Can Hate
Etichetta:
Genere: Thrash 
Anno: 2014
Nazione:
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73


Immaginare il vasto e complesso universo Metal come una sorta di mappa stellare sulla quale poter collocare i vari gruppi nei paraggi della galassia di maggior attinenza potrebbe sicuramente essere utile per cercare di decodificare la nutrita proposta dei nostrani One Soul Remind.
 
Il quartetto vicentino nato nel 2011 e composto da Paolo “China” Santagiuliana alla voce, Giovanni Sudiro alle chitarre, Alex Olivieri al basso e Giulio Cariolato alla batteria, propone in effetti una sorta di thrash melodico dai tratti decisamente ibridi, nel quale influenze tipicamente primi anni ’90 si mescolano in maniera quasi sempre felice con riferimenti più old school. Non stupisce, quindi, che, pur trovandoci di fronte ad una band molto giovane e giunta all’esordio negli anni del metalcore o del revival thrash, i nomi che maggiormente riecheggiano in testa durante l’ascolto siano quelli dei Metallica novantiani, degli Anthrax era-Bush, dei Machine Head, dei Testament di “The Ritual” e dei Godsmack
 
Le nove canzoni  in scaletta, pur ammiccando in più d’occasione ai citati maestri del passato (“Manipulator” ha molto dei Quattro Cavalieri di San Francisco, l’ottima “Alone” ricorda per certi versi la mitica “The Black Lodge”), mostrano tuttavia una buona coerenza d’intenti ed una personalità decisamente apprezzabile per un gruppo al debutto. Le melodie, pur non facendo gridare al miracolo, nel 90% dei casi funzionano e mettono anzi in luce forti le forti, ulteriori possibilità di miglioramento di China alla voce, tecnicamente ancora imperfetto quanto, ad ogni modo, già ben avviato sulla giusta strada. Un po’ più avanti, e quindi su livelli tecnici più che buoni, il resto della truppa, decisamente a proprio agio con gli strumenti in pugno e assolutamente “centrata” nel contribuire a mantenere le premesse dell’impegnativo titolo.
 
Un buonissimo debut album, insomma, caratterizzato da un livello medio compositivo e strumentale piuttosto elevato e da alcuni picchi realmente notevoli (“Alone” e “Look At My Face” in particolare, ma anche la furiosa “Benchkisser”, giusto per citarne tre): un contesto nel quale le piccole imperfezioni/ingenuità risultano sostanzialmente ininfluenti e fanno ancor meglio sperare, viste le ampie possibilità di miglioramento. Avanti così.

Stefano Burini

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