Recensione: Amped

Di Matteo Lavazza - 5 Gennaio 2006 - 0:00
Amped
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Anno: 2005
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73

Nuovo lavoro per i Seven Witches di Jack Frost, un gruppo che tra alti e bassi è rimasto uno dei pochi a mantenere alta la bandiera del Metal statunitense, alla faccia dei trend più o meno passeggeri, ma comunque sempre dettati da MTV, che imperano dall’altra parte dell’oceano.
Il compito di presentare al pubblico il nuovo cantante della band Alan Tacchio, ex Watchtower e Non-Fiction, è affidato a “West Nile”, un branoi in pieno Seven Witches Style, cioè un Heavy Metal roccioso e potente, che pesca a piene mani dalla tradizione U.S.A di gruppi come i mai troppo compianti Metal Church o i Vicious Rumors dei tempi d’oro. La canzone è davvero esaltante nella sua semplicità, riff tutto sommato semplici, se volete anche banali, ma dannatamente coinvolgenti e cattivi, che obbligano l’ascoltatore quantomeno a muovere la testa.
Tutto il disco è un concentrato di puro Heavy Metal, senza concessioni, o quasi, all’innovazione, ma se si tiene conto del fatto che ormai sono rimasti pochissimi i gruppi che si dedicano a questo genere Frost e compagnia fanno quasi la figura degli innovatori.
Pezzi come “Sunnydale High”, “GP Fix”, “Fame Gets you off”, “Red” e la conclusiva “Widows and Orphan” vanno a rinverdire la gloriosa tradizione Metal americana, non certo quella patinata e falsamente trasgressiva del giorno d’oggi, ma quella fatta di riff pesanti come un macigno e tanto sudore, senza strizzate d’occhio al grande pubblico, ma con una passione che è difficilmente riscontrabile nei gruppi più moderni che cercano a tutti i costi di sembrare falsamente innovativi. Purtroppo non mancano le note dolenti all’interno di questo “Amped”, infatti al suo interno trovano posto canzoni come “Dishonor Killings”, che pur rimanendo piuttosto fedele a quello che è il filo conduttore del disco va alla ricerca di atmosfere più oscure, senza però riuscire, a mio parere, a centrare il bersaglio, la ballad “Be”, davvero troppo scontata e “moscia”, e “Flesh for Fantasy”, in cui il gruppo cerca di inserire qualche tocco di innovazione, dato da particolari arrangiamenti di tastiera e dall’uso di filtri sulla voce, che ottiene però come unico risultato quello di spezzare il ritmo del disco e di risultare quindi inutile.
I suoni sono un altro aspetto che non mi ha per niente convinto, canzoni del genere meriterebbero delle chitarre che spaccano i coni degli amplificatori, mentre invece ci troviamo di fronte a suoni sì puliti e precisi, ma che davvero non rendono giustizia alla potenza che avrebbero potuto esprimere simili brani.
Tecnicamente la band è, come sempre, su livelli altissimi, la voce di Alan Tecchio ha bisogno di ben poche presentazioni, calda, potente e sempre in grado di gestire al meglio le varie partiture, riesce a non far rimpiangere quella del suo illustre predecessore, cioè James Rivera, la chitarra del mastermind Jack Frost è sempre affilata come un rasoio, ed in qualche occasione sfodera assoli davvero molto belli, mentre la sezione ritmica è sempre compatta è precisa, ed in grado di dare il giusto approccio.
È bello sapere che negli Stati Uniti non tutti si sono conformati agli standard imposti dal mercato, di gruppi come i Seven Witches si sente la mancanza, in fondo buona parte di quello che ascoltiamo oggi ha avuto inizio proprio da queste sonorità, e sapere che qualcuno cerca di tenere vive certe sonorità non può essere che un bene, e sinceramente preferisco mille volte un disco magari privo di originalità come questo, ma con un anima, ad un disco moderno ed innovativo ma freddo e senza emozioni.

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