Recensione: An Error of Judgement

Di Stefano Usardi - 1 Marzo 2018 - 8:00
An Error of Judgement
Band: Spiral Key
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2018
Nazione:
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75

An Error of Judgement” è il secondo album del duo britannico Spiral Key, formatosi nel 2012 e autore, cinque anni fa, dell’esordio “Perfect Machine”. Il genere proposto dai nostri è un raffinato prog metal che fa delle melodie avvolgenti e maestose il proprio marchio di fabbrica, senza però farsi mancare atmosfere oscure e decadenti e un’impalcatura chitarristica di tutto rispetto (anche se, per la verità, in alcuni casi sarebbe anche troppo pronunciata), condendo il tutto con sinfonismi assortiti e tematiche che esplorano, non senza un certo black humor, le mancanze del genere umano, dalle pesanti diversità e debolezze dei popoli fino ai più intimi fallimenti delle singole persone.
Echi sparsi di Threshold e Fates Warning rimbalzano qua e là durante l’ascolto, scivolando tra un arpeggio disteso dalle reminiscenze classiche, una robusta sfuriata o un sottofondo orchestrale, e contribuiscono a rendere “An Error of Judgement” un album interessante e stratificato; seppur ad un primo ascolto, infatti, la resa finale non mi avesse convinto più di tanto, dandomi l’idea di un lavoro un po’ monotono e ripetitivo, pian piano mi sono lasciato avvolgere dalle atmosfere del duo e mi sono goduto l’album molto più di quanto mi fossi aspettato all’inizio.

Un arpeggio malinconico e vagamente insinuante apre le danze, irrobustendosi in un secondo momento per poi consentire alle tastiere di sostenere una voce limpida e stentorea: il profumo dei vecchi Dream Theater aleggia su “Reason Revolution”, traccia breve ma dall’oscura solennità in cui ai ruvidi riff di David fanno da contraltare le maestose orchestrazioni che si appropriano della scena durante il ritornello. Un’apertura sontuosa e magniloquente introduce invece “Dark Path”, una delle tracce più accessibili a detta di chi scrive (nonché una delle mie preferite). La traccia si sviluppa in sordina lungo la prima strofa, mantenendosi su toni bassi e ritmi molto scanditi per poi impennarsi improvvisamente durante il ritornello, esplosivo e trionfale; procedendo con il minutaggio i toni si alzano, pur mantenendo i ritmi blandi. Bella la sezione strumentale centrale e il conseguente assolo, elegante seppur piuttosto breve, che inaugura una seconda parte più dimessa ma che si rimette in carreggiata in tempo per il crescendo finale. La successiva “Freeze Time” torna ai riff aggressivi e velatamente asettici dell’opener che, dopo una breve sfuriata cedono il passo a melodie dilatate dal vago retrogusto di Rush anni ’80. I cori si aprono durante il ritornello aggiungendo un certo pathos alla traccia, che comunque non perde la sua anima frizzante anche grazie a sporadiche intromissioni di basso e di chitarra lungo la sua durata. “Hollywood Dreams”, da cui è stato tratto il primo video dell’album, sembra tornare alle atmosfere più oscure e malinconiche che già avevamo incontrato all’inizio dell’album: l’incedere si mantiene scandito, salvo poi farsi maestoso in corrispondenza del ritornello più incalzante; quest’alternanza prosegue per tutta la traccia, inframezzata ogni tanto da qualche svolazzo chitarristico più dilatato dal profumo quasi settantiano che, però, non riesce a farle spiccare il balzo in avanti che avrei sperato, consegnandoci una traccia, a mio avviso, riuscita a metà e un po’ troppo altalenante.
Una melodia carica di pathos introduce la successiva “Possessive”, in cui il tasso di maestosità minaccia di rompere gli argini in più di un’occasione, avvicinandosi pericolosamente, in alcuni casi, ai confini dell’affettazione. Ciononostante, la traccia scorre bene, bilanciata dall’incattivimento del suo incedere nella sua seconda metà che, per quanto leggero, le dona quel retrogusto ruvido che non guasta. Nel finale si torna ad una cerimoniosità un po’ autoindulgente nell’uso di melodie pompose che, inaspettatamente, si caricano di una nota di allarme negli ultimi istanti prima di cedere il passo alla ben più robusta “Sanctimonious”, dominata da riff gracchianti, asettici e melodie serpeggianti. Il breve rallentamento centrale alza il sipario su una sezione più cupa che, a sua volta, riapre a una certa frenesia che ci accompagna fino al termine della canzone più metallica dell’album. “West Facing” torna a macinare riff oscuri, carichi di allarme, stavolta sorretti da orchestrazioni schizoidi e una sezione ritmica anomala; la voce si mantiene bassa, filtrata, spigolosa, aprendosi solo raramente alla voce piena e creando un bel distacco tra le due anime del brano. La relativa tranquillità che si impossessa della seconda parte del brano conduce a una sezione più dilatata, breve interludio prima del ritorno all’atmosfera incombente dell’apertura e che chiude idealmente il cerchio su una traccia interessante e diversa dal solito, anche se piuttosto avulsa dal tono complessivo di questo “An Error of Judgement”. Chiude l’album “Dead End”, il cui arpeggio iniziale ingannevolmente tranquillo ed ammaliante apre a melodie più oscure che irradiano un’ottima atmosfera, rovinata a mio avviso da una resa vocale che mi è sembrata, in questo caso, un po’ fuori contesto. Ciononostante la traccia scorre in modo più che soddisfacente, chiudendo in modo degno – seppur con un po’ di amaro in bocca – un album elegante anche se non per tutti. “An Error of Judgement”, oltre ad essere suonato con ottimo gusto, è permeato da atmosfere affascinanti e si dimostra capace di svettare al di sopra della massa dei suoi rivali diretti ma, per un motivo o per l’altro, durante l’ascolto sembra mancare il cambio di passo finale capace di renderlo un vero e proprio classico del suo genere. Io però un ascolto glielo darei, se fossi in voi.

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