Recensione: Angels of the Apocalypse

Di Roberto Gelmi - 18 Maggio 2014 - 12:31
Angels of the Apocalypse
76

Dopo il primo capitolo in ultimas res, chiuso su toni catartici e trionfali dall’ugola d’oro di Mr. Michael Kiske, la trilogia orchestrata da Timo Tolkki si viene componendo con un nuovo tassello (sempre per Frontiers Records), che si colloca all’inizio del concept distopico-futurista disegnato ad hoc per questi tempi di generale abulia mondiale.
The Land of New Hope, pubblicato giusto un anno fa, ha figurato nelle classifiche di sette paesi europei (addirittura nella top ten finlandese); il compositore finnico, tuttavia, non pago dell’hype comunque significativo sorto attorno al suo progetto, assolda alla batteria (invece di confermare Alex Holzwarth) Tuomo Lassila, fondatore degli Stratovarius (e attualmente attivo con la Symphony Orchestra di Lohja in veste di percussionista), insieme ad Antti Ikonen alle tastiere. Si ricrea così il nucleo forte di album come Dreamspace, quest’ultimo certo non un capolavoro, ma l’effetto nostalgia è garantito.
Il resto del cast è notevole, anche se non eguaglia quello dell’album precedente. Dentro Floor Jansen come protagonista, fuori Sharon Den Adel; scarsa luce per Elize Ryd, poco più per Simone Simons e l’esordiente Caterina Nix (statuaria e promettente cantante cilena, del cui debutto solista si sta già occupando lo stesso Tolkki). Sul fronte maschile spiccano Fabio Lione (di cui ormai si fatica a contare le comparsate, includendo le recenti apparizioni con i connazionali Kaledon e Ancient Bards), Zack Stevens e David DeFeis, come da turn over, in luogo dell’altro all-star cast che prevedeva Rob Rock, Michael Kiske, Russell Allen e Tony Kakko.

Per il nuovo capitolo della trilogia Tolkki punta su un approccio più heavy e pomposo, con qualche tinta oscura, che si sposa con i testi millenaristici dovuti alla natura del concept. A questo proposito merita un elogio l’artwork di Stan Decker (che ha firmato anche l’ultimo platter dei Vanden Plas) il quale si rifà dalla prova anodina di The Land of New Hope, con una copertina accattivante (non manca, oltre al pendente gigliato, un’amazzone degna della mano di Luis Rojo).
Toni più pesanti dicevamo: come si legge sul sito della metal opera, infatti, il nuovo platter è ambientato nel 2020. I supremi spiriti elementali mandano sulla Terra quattro angeli (chiamati, guarda l’originalità, niente meno che Fire, Wind, Earth e Water), per osservare lo sviluppo dell’umanità nel secolo appena trascorso. Come prevedibile, gli spiriti inviati nel pianeta blu s’imbattono in terribili sofferenze e in un risentimento epocale, viaggiando nel tempo tra fine Ottocento e ventunesimo secolo. Tentano di avvertire l’umanità del pericolo che corre e della distruzione imminente cui è destinata: le forze della natura riavranno il sopravvento sulla corrotta stirpe di Adamo e l’avvento del Giorno del giudizio è imminente.

Con tali premesse non stupisce che l’album si apra fin da subito con toni mesti. L’immancabile intro è di quelli dimessi, con un Fabio Lione generoso in quanto a pathos. Lo ritroviamo nel vero opener, “Jerusalem Is Falling”, però su registri più tirati. La prova del cantante italiano è grintosa e ricorda più la sua militanza nei Vision Divine (di cui Tolkki è stato produttore) che i suoi trascorsi con i Rhapsody of Fire. Un ottimo inizio, in definitiva, con una voce nota che accoglie in modo impeccabile l’ascoltatore e che ritroveremo in “Stargate Atlantis”.
Design the Century” sta a Floor Jansen come “Enshrined in my memory” sta a Elize Ryd. Si tratta di un brano scritto per valorizzare il main character femminile, con un tema della 6-corde facile facile, accenti pomposi e arrangiamenti corali (Epica docet). Niente d’epocale, tuttavia, nonostante il titolo ambizioso.
Sono più alte le aspettative per il brano successivo, che vede a dettar le regole il leader dei Virgin Steele, David DeFeis, il quale ha fatto faville nei due capitoli iniziali degli Avantasia (il primo di questi, tra l’altro, si conclude proprio con la sua voce a recitare un accorato mea culpa: «Was it my fault? / Or was it no one’s fault at all?»). In “Rise of the 4th Reich” l’istrionico cantante statunitense appare, tuttavia, un po’ giù di tono e non basta un bell’assolo di Tolkki per risollevare le cose. Il chitarrista, inoltre, sembra voler coverizzare un brano dei Virgin Steele (con synth d’organo e cadenze evocative), invece di valorizzare in modo nuovo e intrigante l’illustre ospite. Da segnalare, altresì, l’inserimento di un inquietante sample con la voce di George W. Bush, che dichiara aperta la lotta globale contro il terrorismo (nuova minaccia mondiale che va a colmare il vuoto lasciato dal crollo dell’URSS?). Scelta discutibile, tanto più che gli scandinavi Andromeda hanno fatto meglio con le parole di Obama circa la necessità della guerra in “False Flag” (dall’album Manifest Tyranny del 2011).
Echi stratovariusiani nei primi secondi di “Stargate Atlantis”, con le tastiere caratteristiche di Ikonen (che resero inconfondibile un album come Fourth Dimension, prima dei barocchismi di Jens Johansson). Lione impone ancora la sua personalità e la traccia si lascia riascoltare (grazie a un refrain con voci secondarie eteree), anche se non è piva di una certa ripetitività. Di certo è un brano che se la gioca alla pari con “Dark Fate of Atlantis” dei Luca Turilli’s Rhapsody.
Arrangiamenti elettronici per “The Paradise Lost”, con Ikonen che lascia il segno più dei tre tastieristi ospiti nel 2013. Floor Jansen ammanta l’atmosfera sonora di grazia cristallina, ma il suo timbro non ha la secchezza e gli acuti di Elize Ryd. Break pesante al min. 2:48, poi un breve assolo con le solite scale pulite.

La ballad “You’ll Bleed Forever” propone la cantante dei Nightwish su toni velatamente mesti e armonie distese. Il ritornello con qualche glissato è facilmente memorabile in prospettiva live. Tolkki è ispiratissimo nell’assolo con bpm al minimo storico, quasi vengono in mente canzoni storiche come “Years go by” e “Venus in the morning”.
Brano un po’ sottotono la successiva “Neon Sirens” con Zak Stevens (Savatage, Circle II Circle) al microfono. La scelta del cantante statunitense avrebbe potuto/dovuto regalare qualche emozione in più, invece di pagare un tributo fin troppo lapalissiano ai Savatage di Streets (e ai Black Sabbath di “Neon Knights”?). L’intro presenta un buon arpeggio, i ritmi sono heavy e l’ESP di Tolkki più spigolosa che mai; il pezzo, però, non è dei più convincenti.
High Above of Me” è una ballad con pianoforte e soundscape impreziosita da Elize Ryd, Simone Simons e Caterina Nix (brava negli abbellimenti vocali): trio da favola (quasi un gineceo) per un brano con dinamiche soavi. Attorno al terzo minuto la Simons vola alta, poi al min. 3:45 inizia un crescendo improvviso e Tolkki (in)canta alla chitarra. Il tutto sfuma in una coda vellutata con vocalizzi eterei degni dei migliori Within Temptation.
La title-track (da quasi dieci minuti) in calce all’album attacca pomposa e orchestrale (chi ha detto “Elements” degli Stratovarius?) con accordi abrasivi e cori apocalittici. Dopo i due minuti scenografici dell’incipit, i toni si acquietano per un attimo con la voce della protagonista su dinamiche vellutate. Al min. 3:36 colpisce un cambio di tempo repentino e un grande assolo di Tolkki. Il refrain è impegnativo anche per la Jensen con note tenute su registri alti; la coda, invece, risulta ridondante in un interminabile fade-out barocco. Peccato che il mastermind finnico non abbia pensato di chiamare a raccolta tutti i cantanti coinvolti in quest’album per un gran finale.
Il breve outro “Garden of Eden” con carillion e inserti orchestrali sembra fare il verso al genio di Tuomas Holopainen: un postludio pleonastico di cui non si sentiva la necessità.

Per trarre qualche conclusione, il secondo full-length dei Timo Tolkki’s Avalon non aggiunge e non toglie nulla al primo capitolo della trilogia. Anche senza l’effetto sorpresa di cui si è giovato The Land of New Hope, Angels of the Apocalypse è un buon disco, con alcuni momenti emozionanti e sorretto dall’ennesima prova sopraffina di Fabio Lione. I nomi di DeFeis e Zak Stevens non passeranno inosservati, ma il loro apporto all’album è francamente secondario, colpa anche di Tolkki che non ha saputo integrarne le personalità in un concept troppo rigido. Si avverte, infatti, a tratti un effetto di disorganicità: non tutti i membri del cast trovano il giusto spazio e il risultato finale richiama, per certi versi, quello ottenuto con il primo capitolo dei Revolution Renaissance (che, da disco targato Stratovarius, è diventato proprietà di Tolkki, il quale ne fece interpretare i brani riarrangiati a cantanti come Tobias Sammet e Michael Kiske). Punti a favore dell’album restano la produzione, gli assoli chitarristici (non più stratosferici, ma comunque empatici) e il trattamento delle voci femminili, che trovano in Floor Jansen una professionista navigata capace di evitare qualsivoglia sbavatura. Speriamo in qualcosa di meglio per quanto riguarda il terzo full-length, aspettando di riascoltare il trittico tra una decina d’anni e pensare che il concept non fosse poi così distante dal vero.

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

 

Discutine sul forum al relativo topic

Sito ufficiale: http://avalonopera.com/

Ultimi album di Timo Tolkki’s Avalon