Recensione: Anger At Dusk

Di Stefano Burini - 28 Giugno 2015 - 12:31
Anger At Dusk
Etichetta:
Genere: Metalcore 
Anno: 2014
Nazione:
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75

Gli Anger At Dusk provengono da Milano e come gli Anewrage e i più noti Destrage, propongono un metalcore progressivo peculiare ed assolutamente degno di nota.

È rabbia – e nemmeno poca – quella che traspare tra le pieghe di questo debut album autointitolato, ma non cieca e men che meno fine a se stessa; infatti, al netto di un gran dispendio di energie, la band milanese non ci/si fa infatti mancare qualche colpo di classe inatteso e del tutto gradito.

La formula, esposta e confermata a più riprese all’interno delle dodici canzoni proposte nella tracklist, è a grandi linee quella ormai classica a base di strofe urlate e ritornelli in voce pulita. La differenza – rispetto ad altre migliaia di gruppi dediti a sonorità affini – la fanno la grinta, l’ispirazione e la capacità di cesellare inaspettati inserti di varia estrazione all’interno di un tessuto sonoro decisamente brutale.

Le vocals rudi e graffianti di Stefano Mainini, spesso contrappuntate da cori tutti storti in puro stile HC vecchia scuola e culminanti in una serie di refrain melodici davvero riusciti, fanno certamente la differenza,senza però nulla togliere al devastante guitar work ad opera di Mattia Ambrosio e Giacomo Lorioli – ispiratissimi anche in fase solista – e all’instancabile lavoro di Luca Porzio e Stefano Brognoli in sede ritmica.

I dodici pezzi proposti funzionano – e alla grande! – nel loro complesso, mettendo in luce un’ecletticità non banale per una band al debutto e un gusto melodico vincente, in grado di dar vita a canzoni dure eppur melodiche, vivaci e per nulla scontate.

Sin dalla spettacolar opener “Got No Heart” e dalla successiva “Fade”, le coordinate sonore precedentemente descritte si palesano in maniera evidente. Riffing spezzettato, vocalismo abrasivo e sgolato (non troppo lontano dallo stile di Brock Lindow dei 36 Crazyfists, tanto per fare un nome), cori sbilenchi e un’irrefrenabile tendenza a soluzioni di stampo progressivo, il tutto incastrato senza forzature in pezzi perlopiù brevi e diretti.

La prima parte della tracklist viaggia sulle medesime sonorità, modificando di traccia in traccia il quantitativo degli ingredienti e lasciando di volta in volta spazio ad intermezzi jazzati (“Oblivion”), pause atmosferiche (“Beyond Serenity”) e sprazzi di elettronica (come in “Drowning”, molto funky e impreziosita dal contributo di Ralph Salati dei Destrage alla chitarra).

La seconda parte dell’album, pur non uscendo ovviamente dal seminato, propone brani se possibile ancor più ricercati e incatalogabili, come la (quasi) ballad “Distant Memories”, nella quale si fanno prepotenti gli echi dei Killswitch Engage più romantici e levigati, la furiosa “Fuck” – un minuto e mezzo di pura rabbia al confine con il djent – la frammentata ma avvincente “Coward” e la più groovy “Eaten Up”.

Ci pensa poi la rumoristica outro “1987” a porre il sigilllo su un debut album assolutamente interessante e degno di considerazione, un saggio di grande bravura e creatività da parte di un ensemble ancora giovane ma in grado di ritagliarsi il proprio spazio nella sempre più affollata scena *core degli anni 2010.

Stefano Burini

 

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