Recensione: Archgod

Di Daniele D'Adamo - 10 Dicembre 2014 - 23:44
Archgod
Etichetta:
Genere: Metalcore 
Anno: 2014
Nazione:
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Quella dei Faithful Darkness è un’altra storia che ha avuto inizio davanti a una birra. Dieci anni fa, a volere essere precisi, quando Jimmy “Judas” Persson, chitarra e voce, dopo aver lasciato i Soilwork, incontra in un pub Martin Langen, batterista, con il quale nasce l’idea di dar vita a una band nuova di zecca. 

Da allora, quattro demo (“Faithfull Darkness”, 2004; “Faithfull Darkness II”, 2005; “Alive”, 2006; “Fields Of Yesterday”, 2006), un EP (“The Second Reflection”, 2013), un singolo (“An Ocean Of Time”, 2013) e, soprattutto, tre full-length (“In Shadows Lies Utopia”, 2008; “Black Mirror’s Reflection”, 2012; “Archgod”, 2014). E, circostanza da non trascurare, un costante rimaneggiamento della line-up che dei Faithful Darkness iniziali ha condotto alla conservazione del solo former-vocalist Erik Nilsson.  

Il che spiegherebbe abbastanza semplicemente che il death metal melodico natio è stato via via sostituito da un metalcore robusto e granitico, perfettamente allineato con le più moderne sonorità che sta proponendo il mercato internazionale nel tema. Non si tratta tuttavia di flavour di provenienza britannica, che va attualmente per la maggiore, quanto del risultato di un’evoluzione (o involuzione, dipende dai punti di vista…) che ha traghettato un sound classico come il gothenburg metal sul versante dominato dalle propaggini *-core.    

Per Faithful Darkness si può scrivere più correttamente di metalcore invece di deathcore, giacché il primo assume a sé principalmente la tradizione melodica, mentre il secondo basa i suoi dettami sulla brutale aggressività. Anche se è da rimarcare che i Nostri quando debbono spingere sul piede dell’acceleratore non si tirano certamente indietro, come dimostrano i furibondi blast-beats di “The Witness”, per esempio. Un sound a tutto tondo che, inoltre, presenta pregevoli intarsi di tastiera atti ad ammorbidire e soprattutto armonizzare e rendere meno ostici i passaggi più violenti (“An Ocean Of Time”). L’aver voluto esplorare a 360° le varie caratteristiche tipiche sia del metalcore, sia del melodic death metal, però – almeno a parere di chi scrive – ha condotto a una certa indeterminatezza di fondo sulla certezza, da parte di Nilsson di aver trovato il bandolo della matassa.

In sostanza, non potendo appuntare nulla alla professionalità di “Archgod” (registrato presso gli Studio Haga; prodotto, missato e masterizzato da Christian Svedin presso gli studi medesimi; disegnato da Gustavo Sazes), l’occhio anzi l’orecchio cade su una discontinuità stilistica sorprendente per dei musicisti e un progetto di questo livello. Più di un momento del platter, cioè, regala buone sensazioni a livello di piacere d’ascolto. Momenti che, tuttavia, si sfilacciano con preoccupante continuità (stavolta) lungo tutta la durata del lavoro. Rendendo pressoché impossibile se non quasi, nel paradosso generato dall’esistenza di melodie tutt’altro che scontate, riuscire a farsi un’idea precisa del carattere di ciascuna canzone. Anche dopo reiterati, insistiti passaggi. Una confusione che non fa bene al quintetto di Höganäs e che, soprattutto, non fa bene a chi ascolta. Spesso disorientato nell’individuazione di quel marchio di fabbrica dell’act scandinavo che, a tutti gli effetti, al momento è troppo tenue e dai contorni sfumati per essere messo a fuoco.

“Archgod” si avvcina alla sufficienza, senza raggiungerla per poco, grazie a una realizzazione assolutamente impeccabile e all’esemplare professionalità dei Faithful Darkness. Che, per emergere dalle sabbie dell’anonimato in cui giacciono ora, avrebbero bisogno di una gran spinta compositiva verso l’alto.

Rimandati.

Daniele “dani66” D’Adamo

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