Recensione: Armageddon

Di Beppe Diana - 2 Giugno 2002 - 0:00
Armageddon
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Anno: 2002
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Membro fondatore nonché leader della Blindside Blues Band, big blues band che vedeva coinvolto anche un altro mago della sei corde come Scott Johnson e dei quali mi preme ricordare l’album “To the station” edito dalla Blues Bureau, personalmente ho sempre apprezzato il talento compositivo del buon Mike Onesko, chitarrista  che avevo conosciuto grazie alla sua breve, ma intensa, collaborazione con la Los Angeles Blues Autorithy, sorta di super gruppo messo in piedi dal guitar guru Mike Verney che, in cinque album pubblicati per la sua Sharpnel records, aveva raggruppato i nuovi talenti delle sei corde per tributare un omaggio ai maestri del buon caro vecchio blues, tributo in cui il nostro Mike si distingueva oltre che per il suo caratteristico timbro vocale molto rauco, anche per la sua viscerale propensione molto old fascioned.

Così dopo svariate collaborazioni con artisti molto prestigiosi come JL Turner, Glenn Huges e Neal Schon, il buon Mike ha deciso di mettersi in proprio dando vita ad una nuova creatura che incarnasse appieno i suoi gusti musicali. Ed ecco allora la nascita dei Guitar army, band che, da quello che potete ben capire, vede fianco a fianco un manipolo di dotatissimi chitarristi, ben sei per la precisione,  in cui, oltre al già citato Verney, fa bella mostra di se il veterano Billy Gressock.

 

“Armageddon”, questo il titolo scelto per l’opera prima della suddetta band, è un album che si muove su coordinate hard blues e che cerca di rimarcare le influenze esercitate da artisti come Gary Moore o Jeff Back, senza per questo dimenticare le lezioni impartite dai maestri del calibro di Albert Collins, Eric Clapton, Jimi Handrix e il mai dimenticato Steve Ray Vaughan. A parte Robert Cray, i Cry of Love ed il nostro Roberto Ciotti, credo che siano in pochi gli artisti contemporanei capaci di scrivere delle composizioni cosi intense ed emozionanti come quelle apparse in quest’album, un platter suonato con maestria e con una fervida passione che traspare da ogni singola traccia di “Armageddon”.

 

Passione dicevamo, si perché in queste dieci tracce è la componente che, oltre all’indubbia tecnica in possesso dei singoli artisti chiamati in causa, risalta maggiormente e che riesce a dar vita ad alcune parentesi musicali in cui il feeling ed il coinvolgimento emotivo vi condurranno in mondo sonoro distante anni luce. Quindi dimenticate i vostri problemi quotidiani e state pronti a battere il piede al ritmo della roboante opening track “Evryday living”, song marchiata a fuoco da un riffing che sembra uscito da un vecchio platter dei Faces, Free o addirittura dei Montuose, o della coinvolgente “Too young to die” memore delle lezioni impartite da band  del calibro di Barman Turner Overdrive o dei grandissimi Rose Tatoo, contraddistinta da una lunga jam finale, che come è lecito supporre, sono il perno portante di molte composizioni, come nel caso della stravagante “Old rochers Antem” o  della torrida “Steelwind”.

 

Piccola ciliegina finale con la title track “Armageddon” una suite blues, roba da piangere lacrime di sale, che ingloba nel suo insieme tutte le sfaccettature musicali presenti nel song book di questo straordinario artista americano. Lo so benissimo che la recensione di quest’album non è da true-metaller, ma se volete scoprire dove molteplici dei  vostri artisti preferiti hanno trovato linfa vitale per poi produrre il meglio della nostra amata musica, beh dischi come questo sono una tappa obbligatoria di primaria importanza, perché come cantavano anni fa gli AC/DC “That’s the way i wanna rock’n’roll”, non dimenticatelo. 

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