Recensione: Armor Of Light

Di Marco Tripodi - 27 Aprile 2018 - 8:00
Armor Of Light
Band: Riot V
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2018
Nazione:
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78

Ogni nuovo album di questa band è un piccolo miracolo, un momento di commozione, soprattutto per i fan che la seguono da tempo e non solo a seguito degli eventi luttuosi che hanno segnato la scomparsa del leader Mark Reale (nonché co-fondatore, assieme all’allora drummer Peter Bitelli) nel 2012. Evito di ripercorrere la storia di questo gruppo semi leggendario; sedici album ad oggi, molti dei quali bellissimi, seminali e fondamentali in una discografia tematica che si rispetti. Nel 2011 Reale fa in tempo ad incidere “Immortal Soul“, che si rivelerà purtroppo il suo testamento; tre anni dopo, motivati anche dalla famiglia di Mark stesso, i band-mates trovano la forza e la voglia di continuare il percorso tragicamente interrotto, proprio nel nome di Reale. Il monicker passa a Riot V (il quinto mark della band) e con Steamheammer viene dato alle stampe “Unleash The Fire“, un lavoro che lascia sbalorditi per l’assoluta fedeltà alla fisionomia ed al sound dei Riot, così come la storia ce li ha consegnati, perlomeno facendo riferimento al periodo aureo della seconda metà degli ’80. “Armor Of Light” riprende il discorso esattamente da lì, mettendo sullo sfondo il periodo con DiMeo alle vocals, e lasciando che a luccicare siano le scaglie dell’armatura che Johnny (la simpatica mascotte) indossava ai tempi di “Thundersteel” e “The Privilege Of Power” (… si lo so, non indossava nessuna armatura e non era manco in copertina ma insomma, simbolicamente ci siamo capiti).

Personalmente sono felicissimo della scelta di Todd Michael Hall ai microfoni (pure della parentesi con Tony Moore); DiMeo è un cantante certamente dotato ma che non mi ha mai fatto venire la pelle d’oca con i Riot. La scelta di Hall ha permesso al songwriting della foca guerriera di tornare ai fasti battaglieri e urticanti che più si confanno ad un blasone così glorioso del metal americano. In tal senso il lotto di canzoni in scaletta ha nel suo maggior pregio anche il suo più evidente limite. Mi spiego, “Armor Of Light” mette in evidenza una qualità compositiva decisamente alta, lodevole, il minutaggio dell’album è pieno di discrete, buone ed ottime canzoni, per altro suonate al massimo dell’impeto, dell’entusiasmo e del cuore. “Victory“, “Messiah“, “Angel’s Thunder, Devil’s Reign“, “Heart Of A Lion” sono una migliore dell’altra, esaltanti, poderose, trascinanti. Risulta sin troppo macroscopico come i ragazzi abbiano misurato col bilancino gli ingredienti perché tutto fosse perfettamente soppesato. Non c’è una minima nota, una sola sfumatura, una singola alzata di testa che possa far dire a qualcuno che questo non sia un album dei Riot al 200%. Un esempio, prendete “Messiah“, non vi sembra l’ennesima variazione sul tema dello spartito di “Thundersteel“? E questa sensazione non vi abbandonerà mai lungo tutto l’ascolto. Tecnicamente (e con un po’ di malignità) si potrebbe quasi parlare di una cover band, una formazione che porta in giro il repertorio di qualcun altro (non è completamente vero, Von Stavern e Flyntz hanno suonato su una manciata di vecchi album) o che ne compone di nuovo ma con la carta copiativa sempre a portata di mano. D’accordo, tutto è fatto per scopi nobili (almeno a noi piace crederlo), tutto avviene nel nome di Mark Reale e dei sodali che con lui hanno scritto pagine di storia borchiata; dunque è quasi fisiologico, o perlomeno comprensibile, che i Riot V non abbiano alcuna voglia di derogare dai binari consolidati e accettati dalla fan-base, per avventurarsi in chissà quali estrosità o stravolgimenti. Forse non sarebbe nemmeno giusto e pertinente assegnarsi una simile missione.

Ha senso che i Riot V oggi – nel trentennale di “Thundersteel“- continuino ciò che la band ha fatto nel suo periodo più classico e rappresentativo. “Armor Of Light” non ha poi tantissimo a che spartire con le release del decennio a cavallo tra vecchio e nuovo millennio, così come non è neppure un novello “Restless Breed“, per dire. L’hard rock degli esordi è stato debitamente metallizzato con “Thundersteel” e quella è la polaroid che gli odierni Riot amano tenere nel portafoglio, sempre in tasca, per ricordarsi come devono suonare gli album con i quali rinnovare continuamente il proprio affetto per il padre spirituale perduto (nota bene, come bonus track c’è una versione riregistrata dall’attuale line-up proprio di “Thundersteel“). Da molti fan era temutissimo il passaggio a Nuclear Blast, croce e delizia per le vecchie band, poiché se da un verso è un’occasione per guadagnare un canale di comunicazione rivitalizzante, tra i più potenti e pervicaci attualmente in circolazione, dall’altro lo scotto da pagare può rivelarsi la minaccia di una “normalizzazione” del sound. Se avrete la pazienza di ascoltare e riascoltare il disco sono sicuro che finirete per convincervi del suo valore, “Armor Of Light” è un’altra buona prova di una band immortale, grintosa, sempre tenace e volitiva; in verità c’è persino qualche segnale di novità (“Ready To Shine” ad esempio ha un chorus affatto prevedibile, quasi da prog band), possiamo insomma continuare a fidarci dei Riot. E’ vero, complessivamente la Produzione ha un che di poco “genuino”, la doppia cassa – da sempre trademark dei Riot – risulta più livellata, bidimensionale (talvolta errori, imprecisioni ed imperfezioni, tanto nei suoni quanto nell’esecuzione, contribuiscono persino ad infondere personalità e vita ad un disco), ma va anche considerato che in carriera i nostri non sempre hanno goduto di Produzioni all’altezza, quindi in qualche misura un loro fan dovrebbe avere la consapevolezza di aver sentito persino di peggio. Tutto ciò detto, per me “Armor Of Light” è una validissima prova, che mantiene in carreggiata i Riot, ne decreta un’invidiabile stato di forma (anche considerando gli oltre 40 anni di attività) e, se possibile, fa sgorgare pure una lacrimuccia pensando a quanta sfiga li abbia ostacolati in carriera (quattro decessi, mille salite e pochissime discese) senza riuscire mai veramente ad arrestarne il cammino.

Marco Tripodi

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