Recensione: Asphalt Ballet

Di Leonardo Baiocco - 25 Marzo 2017 - 19:50
Asphalt Ballet
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 1991
Nazione:
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85

1991. Esce “Nevermind” dei Nirvana. Esplosione a livello planetario del genere Grunge che provocò il declino del tanto amato Hair/Glam Metal e Sleaze Rock, dopo un decennio di successi. Numerose furono le Band formatesi all’inizio degli anni ’90 che, non essendo più supportate dalle loro major, furono costrette a lasciare il passo alla nuova corrente musicale, annoverando un’esigua produzione discografica, in alcuni casi con album di pregevole fattura. E’ il caso degli Asphalt Ballet.

Californiani, di San Diego, gli Asphalt Ballet vengono messi sotto contratto dalla Virgin Records che nel 1991 pubblica l’omonimo album d’esordio, uscito lo stesso giorno della pubblicazione del singolo “Smell Like Teen Spirit” dei Nirvana, sempre da parte della Virgin. Il quintetto è composto dal talentuoso cantante Gary Jeffries, dai chitarristi Danny Clarke e Julius Ulrich, dal bassista Terry Phillips e dal batterista Mikki Kiner. Jeffries è sicuramente l’elemento che fa la differenza, dotato di un fantastica ed ammaliante voce, calda, graffiante e roca al punto giusto. Il genere musicale proposto dagli Asphalt Ballet, che ha chiare influenze Sleaze, Blues e Southern Rock, raccoglie numerosi consensi tra il pubblico, cosa che non succede con la pubblicazione nel 1993 del secondo ed ultimo album Pigs” dove la band fu costretta dalla Virgin a sterzare verso il grunge. Progetto non condiviso da Jeffries che lascia il gruppo prima della realizzazione dell’album per formare successivamente i The Regulators e poi i più noti Alligator Stew, band Southern Rock.

Il debut album si compone di ben 13 tracce. L’opener “Hell’s Kitchen” è sicuramente il pezzo più sleaze del disco, diretto e caratterizzato da un bel riff, dove Jeffries ci fa subito capire di che pasta sia fatto. In “Soul Survive”, uno dei due singoli estratti dall’ulbum, il ritmo si mantiene elevato, il refrain è orecchiabile e trasmette voglia di ballare, magari con una buona birra in mano. D’effetto l’assolo di Clarke che dimostra di possedere una buona tecnica chitarristica. “Tuesday’s Rain”, il secondo singolo estratto dall’album, è la perla del disco, una sleaze southern rock song che cattura l’ascoltatore per la magia che la cosparge. In “End of My Rope” e “Taking a Walk” l’arrangiamento con i fiati (impossibile non far riferimento a Rag Doll degli Aerosmith) da spessore ai due brani, anche questi ben riusciti. Belle e coinvolgenti le atmosfere southern alla Black Crowes in “Heaven Winds Blow” e “Wasted Time”. Dallo sleaze, passando per atmosfere squisitamente southern rock, si arriva alla parte finale dell’album dove il quintetto ci regala brani con ritmi e sonorità diverse dalle precedenti ma sempre accattivanti. “Hangman Swing”, come dice il titolo, è una sorta di swing roccheggiante dove Jeffries dimostra di saperci fare anche con l’armonica. “Blue Movie” si rivela bluesy e coinvolgente anche per la costante ed ottima esecuzione del sax a conferma del fatto che la scelta di impiegare i fiati in questo album sia stata decisamente azzeccata. Il lavoro degli Asphalt Ballet si chiude con “Do It All Over Again”, un mix acustico di swing e jazz che fa schioccare le dita, appassionamente cantato dal nostro eroe Gary Jeffries che, in questa interpretazione, mi ha fatto ricordare uno dei più importanti cantanti jazz di sempre, Louis Armstrong.

In definitiva questo degli Asphalt Ballet è un pregevole lavoro. L’album è intriso di ritmi e sonorità diverse che catturano l’interesse dell’ascoltare, coinvolgendolo dall’inizio alla fine. Nessuna delle tredici tracce si rivela scontata e noiosa. Molto curati i suoni e gli arrangiamenti. 50 minuti di ottima musica che scorrono via velocemente ed arrivati alla fine si ha un unico desiderio…ricominciare subito da capo! 

 

 

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