Recensione: Astral Necromancy

Di Matteo Orru - 7 Novembre 2018 - 0:06
Astral Necromancy
Band: Hoth
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2018
Nazione:
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72

Quante volte ci si lamenta che un concerto di una cover band faccia il pienone mentre per quanto riguarda una band “underground”, o che comunque propone brani propri e originali l’audience è sempre decisamente più limitata?

Iniziamo con questo semplice esempio, per poi ricollegarci più tardi, la recensione della nuovissima fatica in studio del duo statunitense Hoth, per esattezza la terza in studio da parte dei ragazzi di Seattle, fedelissimi e maniacalmente innamorati della saga di George Lucas (difatti Hoth è il pianeta ghiacciato sul quale vengono ambientate gran parte delle vicende dell’ episodio “L’impero colpisce ancora”).

Diciamo immediatamente che abbiamo a che fare davvero con una grande release che farà felici sia amanti del black metal con forti connotati anthemici e melodici, dei nostalgici del death scandinavo di classe e, perché no, anche qualche fan di classic metal che vuole lentamente ampliare i propri orizzonti senza snaturare le sue venature melodiche.

Come i precedenti due capitoli della band, Astral Necromancy ci fa piombare a piè pari dentro una sorta di science fiction totalmente malato e perverso tra tematiche apocalittiche e stellari, galassie perdute e battaglie planetarie.

Il freddo glaciale del pianeta Hoth è totalmente percepibile nelle composizioni dei nostri, e ciò che lascia davvero di stucco è come la band suoni così “retrò” ma con uno spirito moderno e al passo con i tempi. La produzione è da applausi, trattandosi di una band underground c’è sempre il rischio di avere a che fare con dei lavori nei quali non sia all’altezza, ma qui è tutt’altra storia. Il lavoro è valorizzato da suoni cristallini e potenti dove ogni singolo fraseggio è messo in bella vista e risalto, le parti acustiche suonano limpide come il ghiaccio che ricopre il pianeta e lo scream è tagliente come una lama.

Cinquanta minuti piacevoli e immediati divisi in undici tracce che scorrono via come una ventata fresca in piena estate, nelle quali si raggiungono picchi qualitativi davvero non trascurabili.

Se con la opener Vengeance le cose vengono messe subito in chiaro tra atmosfere glaciali in up tempo che pare datato 1995, già nella seconda traccia si iniziano chiaramente a vedere le radici e la scuola che questi ragazzi han frequentato da adolescenti, basta ascoltare infatti il melody iniziale di The Living Dreams of a Dead God che è palese abbiano preso lezioni di storia e letteratura da Prof. Dickinson e Prof. Harris.

Gli Hoth citano e riportano in ogni singolo brano le loro radici, le loro influenze e le loro passioni.

Ciò vuol dire che, in fin dei conti non stanno inventando nulla di nuovo, sono derivativi al massimo, ma lo fanno in maniera dannatamente soddisfacente e mai invadente, e se in The Void Between the Stars riusciamo a sentire la vecchia e cara scuola In Flames, è impossibile non sentire la scuola scandinava in tanti altri pezzi, come ad esempio nella sopraccitata Vengance i Dissection sono presenti a più riprese.

Lo scream ricorda spesso e volentieri quello che fu un tempo Shagrath ma ancora più freddo e mai monocorde.

In Journey into the Eternal Winter si raggiunge il climax assoluto, la punta della montagna per quanto riguarda il disco, una song completa dove, a differenza delle altre si sente più personalità e padronanza dei mezzi, dove il già menzionato black death di stampo classic svedese si mescola sapientemente con parti più prettamente epic al limite del folk, con I suoi cantati puliti centrali che arricchiscono e danno profondità alla composizione.

Ricollegandoci al pensiero con il quale abbiamo aperto la recensione, meglio una buona cover band che di sicuro farà cantare tutte le canzoni tra una birra e una chiacchiera oppure una band che propone suoi pezzi originali?

Gli Hoth stanno nel mezzo, ci regalano album di inediti ispirandosi totalmente alla scena nord europea al suo apice negli anni 90, oscura, glaciale, drammatica e melodica; un tributo mai invadente ma reverenziale che di sicuro, col tempo, continuerà ad evolversi riuscendo ad avere dalla sua parte anche sfaccettature di maggiore originalità. Al momento tuttavia va benissimo cosi, un album che tutti gli amanti del genere dovrebbero avere.

 

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