Recensione: At the Nexus of All Stillborn Worlds

Di Daniele D'Adamo - 19 Dicembre 2018 - 17:58
At the Nexus of All Stillborn Worlds
Band: Zealotry
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2018
Nazione:
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72

Spesso si legge di commistioni fra generi che diventano, esse stesse, a loro volta degli altri generi. Come nel caso degli statunitensi Zealotry, definiti progressive death metal. Una definizione teoricamente calzante ma che ripropone l’annoso teorema: o è progressive o è death. Metal.

In base a ciò, per centrare correttamente l’obiettivo di stabilire cosa siano i Nostri, basta riferirsi a un death metal fortemente intersecato dal progressive, questo sì. Ma sempre death. Il quale fornisce la struttura principale sulla quale gli Zealotry scatenano le loro scorribande evoluzionistiche.

“At the Nexus of All Stillborn Worlds” è il terzo album in carriera dei quattro ragazzi americani, il quale mostra il raggiungimento di una maturità tecnico-artistica impressionante. La musica del platter è davvero complicata, a volte sino all’inverosimile, pregna com’è di digressioni assolutamente complesse nella loro estrinsecazione su disco. Tuttavia, malgrado ciò, lo stile che caratterizza il platter è definito in ogni dettaglio ma, soprattutto, unico e indivisibile. Riconoscibile, cioè.

Si diceva della struttura-base. R.M. Temin declama le linee vocali medianti più fogge, dal tono stentoreo agganciabile al thrash al growling vero e proprio. Un’ugola secca, acre, arida, priva di ogni accenno di melodia. Assente, quest’ultima, in un modo quasi maniacale sia nel guitarwork sia nelle lambiccate giravolte del basso di Jake Himelfarb (‘Primus Venatoris’). Phil Tougas e Jake Himelfarb, i due axe-man, erigono un muro di suono dalle dimensioni esagerate, progettato con geometrie non lineari bensì curvilinee oppure aguzze, taglienti (‘Lethe’s Shroud’). Non c’è un riff simile all’altro, in tutto il lavoro, il che rende l’ascolto molto impegnativo.

Seguire con la mente le miriadi di arzigogoli che, dipanandosi, creano l’ossatura delle varie song, è operazione in cui possono riuscire solo e soltanto i più esperti appassionati di musica estrema nonché progressiva. Ovviamente anche il drumming tentacolare di Alex Zalatan costituisce un caleidoscopio di battute costantemente diversificate le une dalle altre che, paradossalmente, trovano pace soltanto nella folle rettilineità dei blast-beats. Non mancano neppure i cori, quasi incredibili nella loro fabbricazione del tutta priva di qualsiasi tipo di addolcimento o armonizzazione, sferzati da una totale dissonanza che li rende ideali per configurare un mood distopico, cupo, a volte volutamente fastidioso ma anche maestoso (‘Irredeemable’).

È chiaro che, agganciato a uno stile così astruso, anche i brani seguono la via maestra tracciata dal combo di Boston, diventando degli scogli assai ardui da superare indenni, senza allucinazioni. Il songwriting, quindi, segue il leitmotiv tipologico dell’opera, regalando canzoni dalla manifattura eccelsa per quanto riguarda l’esplosione di tecnicismi che rasentano la perfezione formale. Si tratta, però, di creazioni, come più su accennato, in certe occasioni intrappolate nelle loro stesse nebulose d’origine (‘The Sky Bleeds Nightmares’).

Tecnicismi invero non fini a se stessi, cioè elaborati per mostrare al Mondo quanto siano bravi gli Zealotry. No. Sia lo stile generale di “At the Nexus of All Stillborn Worlds”, sia le singole composizioni, a lungo andare, assumono un loro come e un loro perché. Si tratta ‘solo’ di avere parecchia pazienza nel reiterare i passaggi del full-length ma, dati tutti questi ardui ostacoli da saltare, alla fine è plausibile che ci riescano in pochi.

Bravissimi ma troppo, troppo cervellotici.

Daniele “dani66” D’Adamo

 

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