Recensione: Atrophy

Di Andrea Poletti - 11 Gennaio 2017 - 6:11
Atrophy
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2016
Nazione:
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65

Atrophy”, Downfall of Gaia, Amburgo, Germania,Terra; quarto disco in studio ufficiale in sei anni d’attività e mai un vero e proprio gioiello. Una band che pur suonando bene non riesce e non è mai riuscita a tirare fuori il colpo di genio esplosivo dal cilindro, “Atrophy” dalla sua mischia le carte in tavola ma non così radicalmente, non porta a quella rivoluzione che sentivamo necessaria per vedere i tedeschi spiccare definitivamente il volo. Un disco buono, ascoltabile ma nulla di eccelso, difficilmente verrà ricordato tra dieci anni. Una band borderline, con sonorità ciniche, disturbanti e un vocalist che dalla sua ci mette tutto l’impegno del mondo, senza mai riuscire a sfondare la quarta parete. Sintesi breve ma schietta delle righe successive.Questo nuovo ed ultimo parto in casa Downfall of Gaia si caratterizza per la maggior presenza di quelle linee compositive che vanno a prediligere un aspetto prettamente Black metal dalla indistinte forme atmosferiche, lasciando lievemente nelle retrovie quei latrati tendenti all’hardocre e al crust del passato. Potremmo quasi vedere la band oggi come un post-Black con reminiscenze sludge; certamente la volontà di andare a creare una specie di concept album grazie ai testi che trattano della dualità tra vita e morte e la difficoltà dell’esistenza umana, porta un sentore metafisico al suo interno, ma non tutto sboccia come doveva essere, mancano dei micro-dettagli fondamentali. Quali? Presto detto. Fermo restando che pur avendo la necessità di andare sempre oltre, la sensazione prevalente all’interno di “Atrophy” è quella di un obbiettivo prefissato non centrato a pieno; ciò che infatti viene a delinearsi è quella sinistra e paradossale conferma che le canzoni abbiano molti punti in comune; l’effetto storytelling è presente e si manifesta doverosamente ma non vi sono i presupposti per il colpo di genio.

L’iniziale ‘Brood‘ ci accoglie con quell’aurea tetra e decadente che ci si aspetta già dalla cover per divincolarsi dentro stimoli già percepiti in passato dagli Altar of Plagues (RIP), deviando a momenti più intimi quasi a ricordare i tempi che furono dei Cult of Luna. Stesso gioco vale per la seconda ‘Woe‘ che in un marasma di emozioni e cacofonie ci butta dentro un rituale maligno, colmo di rancore e solitudine; la pecca maggiore è data dal cantato, come già accennato, poiché pur avendo un comparto sonoro molto efficace e preparato l’idea che Dominick sia fuori contesto è prevalente, leggermente monotono per quello che è il vivere musicale. La doppietta formata da ‘EphemrolI &II offre la possibilità di addentrarsi entro un suite che diventa l’apice compositivo della band; il post metal combinato con le sfuriate prettamente black si tinge di tinte proto-hardcore per formare una nichilistica metafora del vacuo vivere; l’atmospheric Black che negli ultimi anni ci sta avvolgendo come un virus prende piede e velate dei Deafheaven latitano in lontananza quali stimoli e combustioni per un punto di non ritorno. Questo disco forgia in via definitiva, come già detto precedentemente, la dipartita Downfall of Gaia dal passato e tutto ciò non può che far bene a questa creatura tanto violenta quanto leggermente acerba nei contenuti. La ‘Titletrack‘ non ci dimostra nulla di nuovo rispetto a quello già sentito sino ad ora diventando un ottimo brano fine a se stesso, pur lasciandosi ascoltare con piacevolezza e senza impegno stenta a decollare se non in alcuni punti; lo stacco sul finale tendente all’acustico è molto ben giostrato offrendo una dinamicità al tutto senza andare a stancare come poteva sembrare nei primi momenti. La conclusione viene affidata alla lenta e rituale ‘Petriorch‘ che con il suo mid-tempo riesce a chiudere il cerchio, andando a completare il pantone cromatico formato dalle sole sfumature dei grigi oggi presente all’interno del gruppo; la scelta del pianoforte in chiusura è una ciliegina sulla torta inaspettata che lascia per questo momento molti applausi, un piccolo tocco di genio che delicatamente si adagia su quel bosco dove il lupo è in cerca della sua preda: noi.

Siamo di fronte dunque ad un album discreto, godibile ma non eccelso. Quello che doveva essere il vero salto verso lidi inesplorati è stato un piccolo balzo, con il pensiero di eventuali conseguenze sulla ricaduta. La dipartita quasi definitiva dal crust, gli elementi hardcore sempre più lontani e una maggiore attenzione al comparto sonoro in salsa Black, a dispetto di tutto, ci forniscono un’adeguata sensazione di perdita e disfacimento. “Atrophy” è un grande marasma che prende sfumature da questo o quello per concentrarle e farle sue, non riuscendoci sempre al meglio, ma provandoci indissolubilmente. Vedremo che accadrà in futuro ma ad oggi c’è molto, molto, molto di più nella selva dell’underground che merita attenzioni.

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