Recensione: Autumn

Di Francesco Gabaglio - 1 Agosto 2016 - 1:00
Autumn
Band: ColdWorld
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2016
Nazione:
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78

Correva l’anno 2008, ed eravamo adolescenti diversi da tutti. Il mondo ci guardava con sospetto e noi guardavamo con sospetto lui. Le cosiddette ‘persone normali’ ci fuggivano e noi fuggivamo loro. Eravamo soli, e la nostra solitudine era il nostro vanto e la nostra nobiltà. In quegli anni, quando anche il vuoto poteva bruciare così dolente, usciva Melancholie2, che quel vuoto e quella tristezza ce la imprimevano dentro e ce la facevano sentire come mai era successo né sarebbe successo in futuro. Ciascuno di noi, nel proprio isolamento, imparava dai ColdWorld la poetica dell’inverno, della solitudine e dell’abbandono; imparavamo a goderne, ad avvolgerci in noi stessi e a danzare nelle nevi perenni della nostra anima, facendole vibrare di emozione.

Otto anni sono passati da allora. Le vite di quegli adolescenti, così come quella del depressive black metal stesso, sono state segnate da quel disco e, per strade tortuose, sono approdate al 2016. In questo contesto, Georg Börner se ne torna con un nuovo album, dimostrando un coraggio ed una sfrontatezza che lascia basiti e ci lancia una sfida. Perché un evento simile ci costringe a fare i conti con il tempo, come quando s’incontra un vecchio amico d’infanzia perduto da anni. Sarà diverso da come lo conoscevamo? E noi? Saremo ancora in grado di riconoscerlo e di legare con lui?

E allora, se andiamo incontro a questo nostro vecchio amico che è Börner, la prima cosa che notiamo in lui è che il tempo l’ha cambiato. L’avevamo visto l’ultima volta in mezzo a “Soli morti”, a “Viaggi invernali”, a “Neve rossa” e “Gelo eterno”. Oggi ci si presenta con un album chiamato Autumn. Ci sono dei colori sulla copertina, per quanto sbiaditi possano essere; non più un grigio uniforme. C’è una figura umana, per quanto disperata possa essere; non una lontana silhouette soffocata dalla nebbia. C’è una figura femminile, con un vestito bianco scomposto dal pianto e le spalle parzialmente scoperte.

L’analisi dell’album potrebbe fermarsi qui, alla descrizione della copertina. Sembra un’esagerazione? Forse, ma è la verità. Perché i brani in questo album sono così, proprio come l’artwork: c’è carne, c’è calore. Non sono, come in passato, il suono della disperazione più cupa; non sono il suono del ghiaccio, bensì di una profonda malinconia autunnale. Nei solchi di questo disco non c’è solo tormento, ma persino calde lacrime e attimi di pace. Così, accanto ad elementi più cupi e sonoramente legati ai dischi precedenti, troviamo in questo Autumn anche importanti innovazioni quali l’utilizzo del cantato pulito e inserti blackgaze (o post-black, che dir si voglia).

L’album si sviluppa per altro in modo estremamente efficace e tale da connettere logicamente – quasi narrativamente – i vari elementi che abbiamo citato. Si parte da “Scars“, un brano cupo, veloce e diremmo ‘tradizionale’, che ci accoglie con l’ormai consueta dolcezza del violino ma al contempo introduce già le clean vocals: queste ultime si amalgamano subito con una naturalezza incredibile al sound creato da Börner. “Void” rallenta il ritmo e procede in modo più asciutto unicamente con chitarra, batteria (sempre sintetizzata), basso e harsh vocals, salvo poi aprirsi sul finale con l’innesto (un po’ traballante, a dire la verità) della voce di Emma Frances Skemp, musicista nel progetto folk Sangre de Muerdago insieme a Börner stesso.

 

 

Dopo questa prima coppia il disco prosegue con “Womb of emptiness“, il brano più lungo e sofferto dell’album. Le sonorità cupe, simili a quelle di Melancholie2, vengono alleggerite dai tremolo di chitarra e dalle insistenti clean vocals (“We won’t find peace…”), che creano ampi intermezzi quasi post/shoegaze. Il tormento si allenta; lo sguardo, prima corrucciato e cupo sotto la neve che opprime e silenzia, si leva ora verso l’alto sotto la pioggia e il suono si spande nell’aria: è “Autumn shades“. Il brano continua il discorso del precedente, ma è permeato da una pace profonda e la voce pulita, abbinata al particolare tappeto strumentale, ricorda gli ultimi Enslaved più melodici e distesi. Una vera perla.

La seconda metà dell’album inizia con un piacevole intermezzo acustico (“The wind and the leaves“) nel quale gli archi e la chitarra classica si intrecciano malinconicamente; si prosegue poi con “Climax of sorrow“, che riesce a passare dall’iniziale sound à la Forgotten Tomb ad aperture puramente shoegaze che non stonerebbero negli ultimi Alcest. Il risultato è spettacolare: la traccia si evidenzia sicuramente come il simbolo dei nuovi ColdWorld e, forse, come la migliore dell’album.

Il disco si conclude con “Nightfall“, dall’incedere lento e quasi epico, e con “Escape II” che, rispetto alla “Escape” di Melancholie2, presenta una parte elettronica più discreta e, coerentemente con le coordinate stilistiche dell’album, ancora lievi aperture blackgaze abbinate alle clean vocals.

Un nuovo disco dei ColdWorld, si diceva in apertura, è insomma una sfida per Börner e noi. Per il musicista tedesco significa confrontarsi con un’opera come Melancholie2, non a caso citata più volte in questa recensione, che ha segnato la storia di un genere e la sua stessa vita, ma che appartiene ad un tempo ormai lontano. La sfida, possiamo dirlo, è stata ampiamente superata. Autumn è un album che, a livello sonoro, da un lato introduce novità di rilievo come una produzione più pulita, i già citati innesti blackgaze e le clean vocals; dall’altro, però, suona ancora indubbiamente e inequivocabilmente ColdWorld, grazie soprattutto ad elementi-chiave come le tipiche dissonanze chitarristiche e le riconoscibili harsh vocals. E, soprattutto, grazie al talento ancora limpido di un ottimo musicista che ha osato compiere un salto temporale dall’inverno all’autunno; perdendo forse un po’ di spontaneità, ma conservando una grande maestria compositiva.

Evolvere senza tradirsi. Questa è la sfida che Börner ha vinto. Questa è la vera maturità. E noi? Che ne è stato di noi, in questi otto anni? Siamo rimasti prigionieri del nostro stesso inverno o abbiamo acquisito la capacità di danzare la nostra solitudine anche tra le foglie e le piogge autunnali?

 

Francesco “Gabba” Gabaglio

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