Recensione: Bag Of Bones

Di Francesco Maraglino - 8 Maggio 2012 - 0:00
Bag Of Bones
Band: Europe
Etichetta:
Genere:
Anno: 2012
Nazione:
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83

É davvero rimarchevole l’evoluzione di cui gli Europe si sono resi protagonisti nel corso degli anni, anzi dei decenni.
La band era percepita dai più, negli anni Ottanta del secolo scorso, quale formazione dedita ad un hard rock commerciale, in qualche momento persino mellifluo (vedi la celeberrima “Carrie”), ed era spesso invisa o comunque sottovalutata dai rockers più duri e puri (e noi con questi).

A tale percezione non era certo estraneo l’esibito look a base di enormi capigliature cotonate, peraltro comuni a tutto quel fenomeno Hair Metal che all’epoca dominava la scena del rock pesante, mirato anche a colpire la fantasia delle teenagers, magari le stesse che adoravano anche il pop imbellettato di Duran Duran e Spandau Ballet.
Negli ultimi anni il combo scandinavo ha subito, da un lato, una revisione in chiave storica della propria collocazione nella storiografia del rock, nella quale le è stato riconosciuto il diritto di occupare una casella di tutto rispetto accanto ai riveriti giganti dell’hard melodico e dell’AOR, anche in considerazione della seminale influenza esercitata sulla scena nordeuropea. Dall’altro lato, a partire dalla reunion di qualche anno fa, la stessa band ha intrapreso un percorso di cambiamento che ha portato la loro espressione artistica a risistemarsi in un ambito di rock classico nonché devoto al blues e a tutte le più nobili radici del rock’n’roll.
In tal modo, gli Europe sono riusciti ad assurgere al ruolo di band rispettata e di culto senza più riserva alcuna.

“Last Look At Eden”, l’ultimo studio album, datato 2009, si era rivelato forse il momento più alto, sul piano qualitativo di tale cammino, ed oggi il nuovissimo platter “Bag Of Bones” conferma, e addirittura oltrepassa in qualità e feeling tale recente lavoro.

L’opener “Riches To Rags” rappresenta in tal senso una dichiarazione d’intenti del tutto inequivocabile: riffoni chitarristici caldi e sferzanti danno qui vita, infatti, ad un hard rock screziato di torrido blues, ben supportato dalla voce, inconfondibile ed all’altezza della situazione, di un Joey Tempest maturo e ben lontano da ruffianerie da teen idol.
Sulla stessa linea troviamo la seguente “Not Supposed To Sing The Blues”, primo singolo, ancora una volta insaporita da inequivocabili spezie blues, ma stavolta sparse su un tessuto sonoro più lento e cadenzato, e non privo di influenze Led Zeppelin.
Subito dopo “Firebox” ci porta, invece, nei territori di un epico hard rock fortemente contrassegnato dal suono delle tastiere, il quale richiama alla nostra memoria le influenze di  Rainbow e Deep Purple. Ma ecco che la title-track, qualche minuto dopo, ci richiama ad atmosfere blueseggianti, prima in chiave lenta ed acustica, e poi in un’esplosione di possente hard rock. Un’ariaccia hard blues ci avvolge l’anima anche nella splendida “My Woman My Friend”, scandita e indolente, nella quale l’ascia di John Norum fornisce il meglio di sé nell’esprimere il proprio amore nei confronti dei Thin Lizzy, di Gary Moore e di tutti coloro che hanno saputo accarezzare lo spirito degli amanti della buona musica, mischiando l’irruenza del rock con le radice nere e infuocate del blues.

Le stesse calde atmosfere lambiscono l’ascoltatore nella ballata “Drink And A Smile”, mentre “Demon Head” ci riporta altresì alle atmosfere  più familiari (per gli Europe) di  melodic rock epico ed influenzato da Rainbow e Whitesnake.
E se la trascinante “Doghouse” poi, scuote l’ascoltatore con un hard rock caratterizzato da un vorticoso inseguirsi di chitarre e tastiere, “Mercy You Mercy Me”, ancora una volta un brano poderoso ed incalzante, ci riporta alle sonorità che ci avevano sollazzato nel precedente full-length.

A questo punto, pur piacevolmente (e, ancora, sorprendentemente) coinvolti e travolti da tanto hard rock classico e maturo, abbiamo la sensazione che qualcosa manchi.
Perché va bene il rock duro, va bene il blues, vanno bene i Rainbow, i Whitesnake, i Thin Lizzy ed i Led Zeppelin, ma questi sono gli Europe, i campioni svedesi del rock melodico, ed una ballatona, certamente priva di strizzatine d’occhio al pubblico generalista, per carità, ce la devono regalare….
Ed infatti, quasi vicino al fischio di chiusura, ecco arrivare l’encomiabile “Bring It All Home”,  slow sinuoso, elegante e pieno di feeling, che ci riporta ancora una volta a certi momenti di “Last Look At Eden”: una vera e propria ciliegina sulla torta di un album privo di ombre, in cui gli strumenti e la voce difendono ciascuno il proprio ruolo, ma all’interno di un amalgama complessivo del tutto equilibrato.

Chapeau!, dunque, agli Europe, che, pur lontani dai clamori degli Eighties, sono riusciti a trovare una collocazione inattaccabile, consolidandosi come rock band adulta ed onorata, ma ancora capace di appassionarsi e di progredire, pur se in un ambito canonico, tenendosi così ben lontana da qualunque patetico “effetto nostalgia”.

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Line Up:

Joey Tempest: voce,
John Norum: chitarra
John Leven: basso
Ian Haughland : batteria
Mic Michaeli:  tastiere

Tracklist:

01.    Riches To Rags
02.    Not Supposed To Sing The Blues
03.    Firebox
04.    Bag Of Bones
05.    Requiem
06.    My Woman My Friend
07.    Demon Head
08.    Drink And A Smile
09.    Doghouse
10.    Mercy You Mercy Me
11.    Bring It All Home

 

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