Recensione: Battle Magic

Di Stefano Usardi - 17 Marzo 2016 - 22:33
Battle Magic
Band: Bal Sagoth
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 1998
Nazione:
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75

Terzo disco per gli inglesi Bal-Sagoth, a due anni dal secondo capitolo “Starfire Burning Upon the Iced-Veiled Throne of Ultima Thule” e a tre dall’esordio “A Black Moon Broods Over Lemuria”. Il black metal degli inizi ha ceduto qui il passo ad un metal sinfonico magniloquente e trionfale: già con Starfire… si era assistito ad uno spostamento verso lidi sonori meno oppressivi in favore di una visione musicale più eroica, che in “Battle Magic” trova il suo compimento.

Se, però, credete che con questo album i Bal-Sagoth si siano trasformati in un clone dei Rhapsody of Fire (che giusto in quegli anni salivano alla ribalta internazionale) vi fermo subito: la matrice di partenza non è stata stravolta, si è solo adattata a una nuova dimensione meno oscura ed orrifica. La batteria martella ancora a dovere e lo screaming di Byron non ha perso nulla della sua cattiveria, ma il tutto è ora supportato da tastiere più presenti e da un gusto molto più “fantasy”. Basta confrontare l’intro “Battle Magic” con “Hatheg Kla”, che dava inizio a “A Black Moon…”, per rendersene conto: l’atmosfera malsana ed inquietante di prima diventa ora un inno che potrebbe benissimo festeggiare il ritorno del sovrano alla corte di Aquilonia.
Squilli di trombe e un bel chitarrone classicamente heavy introducono “Naked Steel”, con Byron che declama “the crows will pick your bones clean” per poi partire con le urla che ci piacciono tanto e una batteria ancora molto black, il tutto condito con le orchestrazioni sontuose e trionfali di cui si parlava poc’anzi. Anche quando i tempi rallentano per concedere una pausa all’ascoltatore, chitarre e tastiere si danno da fare nella ricerca di melodie pompose ed enfatiche. “A Tale from the Deep Woods” prosegue più o meno nello stesso modo, sebbene con una maggiore preponderanza recitativa da parte di Byron. Man mano che ci si addentra nell’ascolto dell’album, infatti, il singer sembra più intenzionato a creare un unicum tra musiche e testi, ideale colonna sonora per le sue visioni di altri mondi, che una mera (passatemi l’espressione volutamente provocatoria) serie di canzoni. Il risultato è evidente nella successiva “Return to the Praesidium of Ys”, in cui, dopo un inizio aggressivo che ricorda i Bal-Sagoth dell’esordio, il tasso epico ed evocativo della musica si impenna a livelli clamorosi. “Crystal Shards” è un intermezzo orchestrale che sembra composto per accompagnare una veduta aerea di Atlantide prima del cataclisma, mentre con la successiva “The Dark Liege of Chaos Is Unleashed at the Ensorcelled Shrine of A’zura-Kai” si torna a picchiare sul pedale del trionfalismo smodato, con una bella accelerazione nella seconda metà del brano.
“When Rides the Scions of the Storm” apre la seconda parte dell’album, costituita da un trittico di canzoni mediamente più lunghe e articolate rispetto alla prima metà di “Battle Magic”. Il brano gioca con i cambi di ritmo inframezzando parti più lente ed atmosferiche, quasi contemplative nella loro solennità, a brusche impennate sinfoniche sorrette da una batteria molto black-oriented.
“Blood Slakes the Sand at the Circus Maximus” parte con i soliti squilli di tromba accompagnati da una chitarra cadenzata, che in breve cede il passo a una musichetta da circo (non sto scherzando) che pian piano si appropria di tutta la scena: i gladiatori stanno entrando nell’arena sotto gli occhi gioiosi degli spettatori, che lo spettacolo di sangue inizi. La musica si smorza consentendoci di seguire lo scambio di battute tra Nerone e il gladiatore celta sotto di lui, che dall’arena sputa il suo disprezzo in faccia all’imperatore, per poi tornare padrona della scena e farsi incalzante, serrata durante l’evoluzione della lotta, e di nuovo trionfale nell’ultima parte. Prendete il film Il Gladiatore, condensatelo in 8 minuti e 53 di musica e il risultato non sarà tanto diverso da questa canzone.
Si arriva così a “Thwarted by the Dark” che, nel bene e nel male, ripropone la miscela vincente di “When Rides…” puntando però su atmosfere più cupe e su un ritmo più pressante. Il brano viene spezzato a metà da un intermezzo più raccolto (che non so perché ma mi ricorda sempre il momento melodico tipico di alcune canzoni dei Manowar) e prelude al finale trionfale con una chitarra che più tamarra non si può. Chiude l’album “And Atlantis Falls”, outro strumentale grossomodo superflua, ma che alla fine si lascia ascoltare e svolge il suo compito senza problemi.

In definitiva, “Battle Magic” si presenta come un altro ottimo tassello del percorso musicale dei Bal-Sagoth e un’ulteriore evoluzione nel suono del gruppo. Per concludere mi si concedano un paio di doverose precisazioni: se siete ascoltatori alla continua ricerca di soluzioni eleganti e raffinate state lontani da questo album. Allo stesso modo, se siete blackster duri e puri, refrattari a qualsiasi deviazione dai diktat del genere Trve, passate ad altro. In “Battle Magic” troverete grandi melodie e ottime canzoni, è vero, ma solo se sarete disposti a sopportare quantità smodate di tamarraggine sonora e trionfalismi assortiti e, a seconda di quanto tali elementi vi piacciano o meno, la fruibilità dell’album potrebbe crollare.
Se appartenete ad una delle due categorie anzidette sottraete pure 20 punti al totale dell’album. Per tutti gli altri: mettetevi comodi, pigiate play sul vostro lettore e godetevi lo spettacolo!

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