Recensione: Beautiful Mess

Di Fabio Vellata - 20 Febbraio 2009 - 0:00
Beautiful Mess
Etichetta: Frontiers Music
Genere: Hard Rock 
Anno: 2009
Nazione:
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76

Diciamoci la verità. Non fosse stato per l’altisonante nome posto in copertina o per quello altrettanto degno di nota della label responsabile della pubblicazione, un album come “Beautiful Mess”, nuova prova solista del grande Jeff Scott Soto, molto difficilmente, avrebbe mai avuto a che fare con le pagine di una webzine chiamata Truemetal.

Questa volta, infatti, i riferimenti scelti da Mr. JSS per la sua nuova creatura, sono quanto di più esterno ed alieno al verace heavy si possa pensare, ma pure, elemento tutt’altro che trascurabile, lontani in buona parte anche dalle sfumature tipicamente (hard) rock della sua produzione più nota e prestigiosa, da sempre contraddistinta da grande qualità e valore interpretativo, fosse essa realizzata in veste solista o in seno a qualche importante band (Talisman, Takara, A.R.Pell, Eyes, per citare qualcuna delle infinite collaborazioni).

In tanti avranno un moto di stizza nell’apprendere che, ben lungi dal ricollegarsi con il recente “Lost In The Translation” o con il più morbido “Prism” – ultime due uscite in proprio – le ispirazioni di turno hanno nomi diversi dal solito, abbracciando sonorità di natura soul, funky, R’n’B, blues e lievemente rock-pop che, in quanto ad esponenti di richiamo, dichiarano nomi rispettabilissimi ma tutt’altro che “hard” come quelli di Seal, Terence Trent D’Arby, Stevie Wonder, Sam Cooke e Lenny Krawitz, ovvero, grandi ed espressive voci soul, da sempre inserite in un circuito che con il rock ha ben poco a che spartire.
Come già accaduto per l’interessantissima ultima release di Glenn Hughes, eccoci dunque a fronteggiare un dilemma sostanzioso ed importante. Un risultato da raccapriccio, informe e senza senso, o un disco dotato comunque d’aspetti validi, risvolti piacevoli e belle sorprese anche per i meno avvezzi a tali sonorità?

La risposta risiede in un pugno di brani, estratti consapevolmente dalla corposa tracklist formata da ben 14 titoli. “Cry Me A River”, “Eye”, “Hey” ed “Our Song”: quattro canzoni all’apparenza semplici e lineari, eppure provviste di caratteristiche del tutto non sottovalutabili e di primo piano.
Una voce – inutile sottolinearlo – a dir poco miracolosa, una cura ammirevole per i particolari, i suoni ed i ritornelli, ed una capacità di piacere nell’immediato – di stamparsi in testa al primo colpo – davvero notevole e ficcante.
Un nucleo rappresentativo per un platter che, pur mostrando un’anima “singolare” e poche attinenze con i generi arcigni ed aggressivi, conquista ad ogni ascolto e rivela qualità, in termini d’intrattenimento, inattese e di grande fascino.
È evidente e conclamato, quanto sia necessaria una grossa voglia di andare oltre le abitudini, aggiunta ad un certo desiderio di osare. Ciò nonostante, la realtà dei fatti ci offre un album che, dopo un primo approccio fatto di titubanze e sorpresa, meraviglia per la solarità con cui si propone, per la leggerezza che comunica e per la grande vitalità messa in campo, forte di un gruppo di tracce pronte a dispensare sensazioni positive ed atmosfere primaverili, ed a mettere in piena luce l’estro di un artista mai troppo fermo su stilemi rigidi e fossilizzati e, proprio per questo, ancor più apprezzabile e degno di rispetto.

Le conseguenze saranno pertanto facili da intuire e, a seconda dell’atteggiamento adottato, piuttosto divergenti ed antitetiche.
Vivo interesse per gli amanti della musica nel senso più ampio, ancora una volta ammirati dal talento di un personaggio che, da sempre, rifugge con estrema cura le categorie, nel tentativo di non imbrigliare mai la propria arte in rigidi schemi preconfezionati così come la musa massima – i Queen di Mercury – insegnarono nei gloriosi anni della loro fulgida carriera.
Scarso appoggio o totale opposizione da parte dei puristi, per coloro che, memori delle grandi performance con i Talisman e degli ottimi platter in solitaria, mai vorrebbero ascoltare una voce potente, calda ed intensa come quella di Soto, in un contesto diverso da quello dell’hard rock.

La sostanza in ogni caso, illuminata da una performance strepitosa e da un pugno di canzoni piacevoli, fresche, molto ben realizzate e longeve, lascia in eredità un’unica considerazione conclusiva.
Un album griffato Soto è, qualsiasi possa essere il genere abbracciato, sempre un esempio d’ottima qualità musicale espressa attraverso soluzioni mai dozzinali ed un buon gusto unico nel suo campo.

“Beautiful Mess” insomma, potrà piacere o meno, questo è indubbio. Ma in fondo, chi ha stabilito che un disco per essere bello e riuscito, debba per forza suonare a tutti i costi “hard”?

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