Recensione: Behind The Black Veil

Di Massimo Ecchili - 1 Dicembre 2010 - 0:00
Behind The Black Veil
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Anno: 2010
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Devon Graves, a tre anni dall’ultima release con i Deadsoul Tribe dal titolo A Lullaby for the Devil, e a quattordici da Bleeding con i redivivi Psychotic Waltz (nei quali cantava e suonava come Buddy Lackey) si ripresenta sotto i riflettori con un nuovo progetto denominato The Shadow Theory.
Inutile sottolineare quanto l’assenza di un personaggio della sua caratura pesi quando passa troppo tempo in silenzio; singer fuori dagli schemi e con uno stile del tutto personale, polistrumentista in grado di destreggiarsi con chitarra, tastiera e flauto, songwriter di indubbio talento, Devon torna con una nuova creatura, quindi, e lo fa alla grande. I The Shadow Theory possono essere definiti, senza esagerare, un super-gruppo: sono stati formati dall’artista austriaco mettendo insieme i musicisti che più lo hanno impressionato durante il suo cammino artistico, in particolar modo nel corso dei tour  con i Deadsoul Tribe, quindi dopo lo scioglimento dei compianti (ma redivivi, come in precedenza ricordato) Psychotic Waltz. Così alla chitarra troviamo Arne Schuppner (Complex 7), alla batteria Johanne James (Threshold), al basso Kristoffer Gildenlöw (Dial, ex-Pain Of Salvation) e Demi Scott, musicista greco autopropostosi a Graves, alla tastiera.

Behind The Black Veil è un concept album che racconta un’angosciante e inquietante storia, avente come protagonista una rockstar all’apice della propria carriera, persa in un labirinto di vizi (come lo definisce lo stesso Devon), che in una notte come tante si addormenta di fronte alla televisione, l’ago della siringa d’eroina ancora conficcato nel braccio. Comincia qui un’odissea onirica che lo porta di incubo in incubo, fino al punto nel quale gli risulta impossibile stabilire quale sia il sogno e quale la realtà. Ma il concept è anche una ghost story, nella quale una eterea presenza femminile è, sottoforma ora di passi, ora di una voce nel buio, la vera costante che lega i vari incubi.

Dal punto di vista musicale il platter è in linea con le atmosfere evocate dall’intreccio narrativo; sostanzialmente è un disco prog metal che raccoglie, però, diverse influenze da altri generi, soprattutto per quanto riguarda alcuni riff di stampo thrash, alcune soluzioni al limite della psichedelia e una componente non trascurabile di rock progressivo.
I Open Up My Eyes apre le danze per l’appunto con un riff di matrice thrash ed un breve assaggio del flauto di Graves; flauto che riapparirà, senza mai risultare invadente o fuori contesto, qua e là durante lo svilupparsi del brano, il quale brilla grazie ad una prova ottima da parte di tutti, con Gildenlöw in evidenza. Se l’inizio è a dir poco promettente il resto della tracklist non è da meno, articolandosi in una spirale di emozioni ed ansie sempre nuove, di pari passo con il dispiegarsi del concept. Così, se The Sound of Flies potrà far tornare alla mente i Psycothic Walz di Bleeding, Ghostride inizia in acustico per poi virare improvvisamente grazie ad un riff nuovamente thrash style, a voci sovrapposte e a basso e tastiere ossessivi che ci calano in un altro, nuovo incubo. E di nuovo acustico è l’intro di Welcome, pezzo che raccoglie, senza troppo nasconderlo, la lezione dei Tool. Sarebbe imperdonabile non rimarcare l’ottima performance, qui ma più in generale in tutto il disco, di Johanne James, sia a livello individuale che dal punto di vista della complementarietà con il fretless del fratellino di Daniel Gildenlöw.
By The Crossroads è uno degli episodi nei quali si palesa più compiutamente tutta la teatralità di Devon Graves, splendido protagonista qui assieme a Schuppner. Selebrate è la sorpresa che spezza ritmo ed atmosfera, con una chitarra acustica vagamente southern e Graves che a tratti sembra uno Ian Anderson d’annata. Snakeskin è uno dei pezzi più diretti del lavoro con un bel break che sembra arrivare direttamente dagli anni ’70, mentre Sleepwalking colpisce per le sporadiche ma efficaci orchestrazioni di tastiera. The Black Cradle mantiene l’atmosfera su toni cupi, guidata da voci filtrate e un basso ossessivamente in evidenza; riappare anche il flauto di Graves a dare qualcosa in più ad un pezzo già degno di nota. C’è ancora modo di aggiungere un po’ di senso d’inquietudine al tutto grazie alle percussioni e ai sussurri di A Candle in the Gallery, prima del gran finale rappresentato dal classico brano che vale da solo l’acquisto del disco: la meravigliosa A Symphony of Shadows, una piccola opera nella quale la teatralità drammatica di Devon esplode con una prepotenza incontrollabile, molto ben sorretta dalle orchestrazioni e da una band che si cala ottimamente nella parte.

Behind The Black Veil, oltre ad offrire un concept decisamente interessante (grazie anche al modo non lineare nel quale viene sviluppato) è ottimo da diversi punti di vista: songwriting, arrangiamenti, esecuzione e, non da ultimo, una produzione in grado di sostenere egregiamente l’oscuro dispiegarsi di musica e testi. Uno dei più interessanti dischi dell’anno, quantomeno per il genere proposto, arriva quindi a sorpresa da una band al debutto (anche se formata per lo più da musicisti di nome e con una non indifferente esperienza).
Benvenuti dunque ai The Shadow Theory, e bentornato a Devon Graves, artista di visionario ed indubbio talento.

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Tracklist:
01. I Open Up My Eyes 7:04
02. The Sound of Flies 4:40
03. Ghostride 5:32
04. Welcome 5:02
05. By the Crossroads 5:34
06. Selebrate 3:17
07. Snakeskin 3:48
08. Sleepwalking 5:17
09. The Black Cradle 5:14
10. A Candle in the Gallery 3:56
11. A Symphony of Shadows 7:54

Line-up:
Devon Graves : vocals, flute
Demi Scott: keyboards
Arne Schuppner: guitar
Kristoffer Gildenlöw: Bass
Johanne James: Drums

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